Pubblicato postumo a puntate in supplemento al Giornale di Sicilia, il dossier è la paziente, logica, ricostruzione delle maggiori inchieste condotte dal giornalista siracusano:
i sequestri Cassina, Corleo, Campisi, Mandalà, la speculazione edilizia sul territorio della Valle del Belice, il delitto Russo.
Priva di orpelli e divagazioni analitiche fini a se stesse, la narrazione è un fitto susseguirsi di avvenimenti e personaggi dal cui intreccio Francese deduce i mutamenti e le strategie in corso nello scacchiere del potere mafioso nell'isola.
Il racconto degli eventi è preceduto da una geografia delle maggiori organizzazioni criminali nazionali, dei principali collegamenti tra le cosche, della natura ed entità dei traffici illeciti.
20 maggio 1979
Da Garcia a Russo a Garcia
E' sera. Nella piccola casetta al primo piano in piazza, a Ficuzza, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, la moglie Mercedes Berretti e la piccola Benedetta hanno appena terminato di cenare. Hanno lasciato Palermo nel pomeriggio. La signora Mercedes è stanca, preferisce riordinare la cucina e andare a letto. Russo invece vuol fare due passi. Esce e chiama un amico che abita vicino, l'insegnante Filippo Costa.
E' la sera del 20 agosto 1977, ore 21.30.
In maglietta e pantaloncini, sotto il cielo stellato, fiancheggiando il porticato della caserma della Forestale, Russo e Costa passeggiano diretti verso il bar della piazza. Nessuno saprà mai di cosa parlano.
Al bar entra soltanto Russo per fare una telefonata. Costa attende fuori. Un minuto dopo i due amici riprendono la loro passeggiata. Un teste interrogato dai carabinieri, Felice Crosta, ha detto: "Alle 22 li ho visti. Erano diretti verso la parte alta della piazza lungo il viale parallelo a quello principale".
Nello stesso momento c'è chi si accorge di una "128" verde che procede lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di Russo e Costa. Divide i due viali un largo marciapiedi in parte alberato. L'auto continua la sua marcia fino alla parte alta della piazza, effettua una conversione ad "U" e si ferma proprio davanti all'abitazione del colonnello Russo.
I due amici sono vicini alla macchina degli assassini. Non se ne rendono conto. Non possono. Si fermano, Russo tira fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di "Minerva".
Russo non ha il tempo di accendere la sua ultima sigaretta. Sono le 22,15. Dalla 128 scendono tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminano verso i due. Appena sono vicini aprono il fuoco con le calibro 38. Sparano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che ha il compito di uccidere Costa.
Sono killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cade addosso. Si rialza immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbraccia il fucile sparando alla testa. E' il colpo di grazia. Il killer vuol essere certo che l'esecuzione sia completa e mira anche alla testa dell'insegnante Filippo Costa. E' il secondo colpo di grazia. Si può andar via. Ma l'ultimo killer nella fuga perde gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo.
Numerose persone assistono a queste drammatiche sequenze e, soprattutto, alla fuga perché i killer, a bordo della 128, passano proprio davanti al bar.
Ci si convince subito che si tratta di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima.
Fatti e misfatti di una diga
La scelta di Ficuzza come teatro di esecuzione non è occasionale. Entrambi potevano essere uccisi più facilmente in altri posti. Russo in via Ausonia sotto casa a Palermo, Costa a Misilmeri dove abita. Invece no. La mafia voleva una esecuzione spettacolare ed esemplare.
I mandanti avranno fatto ricorso a killer che conoscono zona ed abitudini del paese. Dovevano sapere, per esempio, che quella sera il "posto" della Forestale era sguarnito e non correvano alcun rischio nel primo tratto di fuga: un chilometro che, senza possibilità di deviazioni nel caso di sorprese, conduce da Ficuzza alla biforcazione del fondo Marino: una strada porta a Corleone e l'altro braccio a Marineo.
Gli appunti trovati su Russo, sulla sua "127", in casa e alla Legione imprimono alle indagini sin dalle prime battute un preciso indirizzo: la diga Garcia. Questa la pista dei carabinieri, che si ritrovano davanti alla formula: mafia-Garcia-sequestro Corleo.
Russo quando muore è al settimo mese di convalescenza. Il mese successivo avrebbe dovuto presentarsi ad una visita fiscale: se l'esito fosse stato positivo si sarebbe definitivamente ritirato dall'Arma.
Ci si chiede quindi quale strada l'ufficiale avrebbe voluto percorrere nel caso di congedo. Squadra mobile e Criminalpol indagano sulle sue amicizie. Soprattutto una, quella dell'imprenditore di Montevago Rosario Cascio. Poi: il progetto di un'industria da realizzare in Liberia, alcuni suoi viaggi a Roma con Cascio, la sua partecipazione in una società, la Rudesci.
Tutti fatti sui quali si indaga. Alla fine, la polizia e carabinieri concordano su un punto: Russo è caduto per aver cercato di ripristinare l'ordine ed evitare soprusi nella corsa dei gruppi mafiosi verso i remunerativi subappalti ruotanti intorno ai lavori per la costruzione della diga Garcia (costo: 300 miliardi circa).
In particolare, il colonnello Russo avrebbe tentato di non far perdere al suo amico Rosario Cascio il lavoro che si era legittimamente conquistato nella diga Garcia, da dove alcuni gruppi di mafia lo avevano cacciato con una serie di violenze.
Il tentativo di Russo non è stato però gradito dalla mafia che intravide nella sua intromissione un serio pericolo per la realizzazione dei programmi iniziati nel '74 con alcuni sequestri-monstre, finalizzati al predominio assoluto nella zona di Garcia e nella valle del Belice.
Un pericolo non infondato perché i gruppi di mafia in fermento avevano già avuto modo di conoscere la tenacia di Russo, soprattutto nella lotta alla "Anonima sequestri".
La nuova mafia ormai aveva preso il sopravvento. E uno dei suoi obiettivi era quello di cancellare l'impresa di Rosario Cascio, di escluderla dai numerosi appalti, cominciando proprio dalle forniture alla Lodigiani, che in quel periodo avrebbe dovuto eseguire lavori per 21 miliardi.
Cascio è considerato una pedina fondamentale dei vecchi equilibri della zona, quelli che non piacciono alla nuova mafia. Inoltre era amico di Russo e aveva le spalle protette da Stefano Accardo, il boss di Partanna-Trapani che sarebbe stato uno degli artefici del fallimento del sequestro Corleo.
Rosario Cascio, nel corso dell'inchiesta giudiziaria poi affidata al giudice istruttore Pietro Sirena, dichiara di essere stato estromesso dall'ingegner Ratti dell'impresa Lodigiani. Ma Ratti lo esclude. In marzo – è la sua tesi – ci sono pervenute due offerte, una della ditta Cascio e l'altra della "INCO". Abbiamo ritenuto più conveniente quella della "INCO".
Soffermiamo la nostra attenzione su questa sigla: è quella di una società con sede iniziale a Camporeale, fondata il 26 giugno 1970, registrata a Monreale; ha il programma di aprire cave, lavorare la pietra e fornire materiale alle imprese che ne hanno bisogno. Una società modesta la "INCO", con capitale iniziale di un milione e duecento mila lire. Ne fanno parte l'imprenditore di Monreale Francesco La Barbera, Giovanni Lanfranca di Camporeale e il cognato di quest'ultimo, il geometra Giuseppe Modesto, dipendente dell'amministrazione provinciale di Palermo, segretario dell'assessore delegato alle opere finanziate dalla Cassa del Mezzogiorno. Strano compito quello di Modesto che, fra l'altro, richiede 200 milioni alla "Cassa" proprio per potenziare le attrezzature della "INCO".
La società il 10 luglio 1971 porta il suo capitale a 150 milioni e il 22 luglio 1974 a 200 milioni. E' l'anno in cui Giuseppe Modesto assume la presidenza della "INCO".
Negli ultimi mesi del '76 la "INCO" è in crisi: "La situazione redditizia – si legge nella relazione di fine anno allegata al bilancio – è negativa per il ridotto regime di attività degli impianti nel corso dell'esercizio 1976 e per la pesante incidenza degli oneri finanziari per debiti a breve scadenza, oltre che per il ritardo del contributo della Cassa del Mezzogiorno".
Per la prima volta, la "INCO" così fa ricorso al fondo di riserva. La società si presenta in queste condizioni come alternativa all'impresa di Cascio concorrendo all'appalto per le forniture alla Lodigiani.
Non si può escludere che il colonnello Russo, dopo essersi tanto adoperato per far superare a Cascio una serie di difficoltà poste da una precedente operazione da effettuare in Liberia, abbia pensato che c'era un solo modo di salvare l'amico reinserirlo nelle forniture di Garcia.
Non avrà tentato il colonnello Russo di raggiungere un compromesso con la "INCO" che, non essendo in grado di garantire le forniture richieste dalla Lodigiani, avrebbe potuto reinserire Cascio nel gioco?
Morto Russo, la risposta a questa domanda è finita nella tomba con lui. C'è però una dichiarazione di Rosario Cascio, che mi ha rilasciato subito dopo l'interrogatorio del giudice Pietro Sirena, che val la pena di rileggere. Dalle sue parole non si esclude l'"ingerenza" di Russo.
"Non comprendo come i Lodigiani e i suoi tecnici – dice – soltanto ora rivelano al giudice istruttore che io sono stato estromesso perché l'impresa aveva ritenuto più vantaggiose le offerte della INCO. Da maggio ad ora nessuno aveva accennato ad offerte della INCO: né io, come erroneamente sostenuto da Lodigiani, a marzo ho fatto offerte per aggiudicarmi le forniture a Garcia in concorrenza con la INCO. E' vero che io già rifornivo i Lodigiani e che a marzo avevo soltanto presentato una variazione di prezzi adeguandoli ai nuovi costi. Continuai le forniture anche dopo la presentazione dei nuovi prezzi che non furono mai né respinti né contestati, come dimostrano le fatture di pagamento. L'offerta della INCO è spuntata dopo la morte di Russo e non posso neanche escludere che si tratti di un'offerta perfezionata in un secondo momento e, comunque, dopo i fatti di Ficuzza, magari per togliere da ogni imbarazzo i Lodigiani e i suoi tecnici. Comunque la INCO non potrà garantire le forniture che soltanto la mia imprese riesce a produrre per l'attrezzatura di cui è fornita e che le consentono di far fronte contemporaneamente alle esigenze di tutte le imprese che operano nel Belice".
Alla luce di queste parole appare verosimile che Russo chiedesse il rispetto della legalità a chi della legalità è irriducibile nemico, il rispetto della giustizia per Cascio a chi nell'ingiustizia prolifera.
"Russo si è spinto", si sussurrò negli ambienti vicini a Cascio. Il suo era un temperamente impulsivo ma generoso. Si spingeva fino alle estreme conseguenze quando era convinto di essere dalla parte della giusta causa. Un temperamento che lo avrà indotto – magari con durezza – a chiedere giustizia per un amico, cosa che gli è costata la vita.
La magistratura, per avallare questa tesi, cerca l'aggancio Russo-Costa alla causa di Cascio. Ma non era forse Filippo Costa l'unico amico che l'ufficiale aveva a Ficuzza e al quale poteva confidare, durante le passeggiate, i suoi problemi? Russo non aveva molti amici. Ma un amico era l'insegnante Costa, probabilmente a conoscenza dell'affare-Cascio.
E, ammesso che Russo non avesse rivelato nulla a Costa, chi avrebbe potuto convincere gli assassini?
18 marzo 1979
I rapporti tra le cosche sicule e mafia italo-americana
Mafia, fenomeno in continua evoluzione, anche nel '78 contraddistinto da una sua peculiarità. Ai delinquenti assassinati nell'ambito della lotta tra cosche, alle mezze cartucce uccise per "regolamento di conti", come dicono gli inquirenti, nel '78, si sono aggiunte alcune morti decisamente atipiche. Delitti che hanno fatto pensare a ristrutturazioni nell'"organizzazione", a lotte intestine per l'attribuzione di cariche direzionali in seno alle "famiglie" di Palermo, delle sue borgate e dei comuni della provincia. Eravamo abituati a registrare, dal lontano 1957, omicidi nell'ambito della guerra di cosche contrapposte: tra "liggiani" e "navarriani", tra seguaci di La Barbera e dei Greco. "Si uccidono tra loro", era il commento dei dirigenti della squadra mobile e degli ufficiali dei carabinieri. Ma nell'ambito di quale guerra si possono collocare gli omicidi di persone come l'avvocato Gaetano Longo, per molti anni sindaco di Capaci, consigliere comunale democristiano, direttore della Banca del Popolo di Palermo, o dell'avvocato Ugo Triolo di Corleone, vice pretore onorario di Prizzi? Difficile – per non dire impossibile – dare una risposta a questa domanda. Anche perché le analisi sulla mafia sono diventate veramente complesse negli ultimi anni. Si pensi, per esempio, alla sua espansione determinata anche dall'indiscriminata applicazione di misure di prevenzione con provvedimenti di soggiorno obbligato in comuni lontani dalla Sicilia: si è finito per esportare mafiosi e delinquenti comuni in tutta la penisola. E si son esportate anche sacche di miseria, di problemi individuali, certamente non risolti dalle 700 lire al giorno previste per i più indigenti.
Si sono così creati vasti strati di diseredati, esposti ad umiliazioni e disagi, facile preda di un'"organizzazione", come si è detto, pronta all'assistenza, alla collaborazione, alla solidarietà. Naturalmente, a patto che a tutto ciò corrisponda disponibilità, rispetto, omertà.
Non si spiega, altrimenti la potenza organizzativa raggiunta da gruppi ai quali fanno capo Luciano Liggio, Gerlando Alberti, i cugini Greco di Ciaculli, Frank Coppola. Personaggi diventati dei veri e propri "simboli" per emarginati che avvertono lo Stato addirittura come espressione di una casta prevaricatrice ed iniqua.
Polizia e carabinieri non avrebbero mai potuto controllare questo gran numero di pregiudicati distribuiti in diverse regioni del Paese. Contemporaneamente si è avuto il perfezionamento dei mezzi di trasporto e di comunicazione. Ciò ha facilitato la ricerca e il consolidamento dei rapporti tra confinati e gruppi di mafiosi stabilitisi sin dagli anni '60 in Piemonte, Lombardo, Lazio, Toscana e Campania per tenere stretti collegamenti con gli italo-americani di "Cosa nostra".
La mafia si evolveva e le forze di polizia restavano con mezzi inadeguati mentre si approvavano leggi buone nel campo dei diritti civili. Ma proprio queste leggi hanno messo in moto un meccanismo perverso. Si pensi alla legge che garantisce la riservatezza delle conversazioni telefoniche, alle innovazioni del codice di procedura penale finalizzate al potenziamento dei diritti di difesa di ogni cittadino ma anche di ogni imputato, alla riforma carceraria con l'introduzione dell'uso del telefono nelle prigioni.
Uomini come Liggio, Coppola, Alberti, Buscetta, pur detenuti, assicurando con il loro prestigio un certo ordine nel carcere hanno goduto in contropartita di privilegi che hanno consentito loro di tenere collegamenti con l'esterno e, soprattutto, con i luogotenenti.
Abbiamo fatto un cenno su "Cosa nostra". I rapporti tra le "famiglie" d'oltreoceano e quelle siciliane si concretizzano nel varo di un programma comune a carattere internazionale formalizzato, o meglio ratificato nelle "assise" di mafia all'albergo Arlington di Binghmantoan dal 17 al 19 ottobre 1956, all'Hotel des Palmes di Palermo dal 12 al 16 ottobre 1957 e ad Apalachin il 14 novembre 1957.
Un rapporto della squadra mobile del 28 luglio '65 mise in evidenza l'intensa attività nel traffico di stupefacenti, valuta e tabacco tra Stati Uniti e Sicilia. Il 31 gennaio '66 vennero rinviati a giudizio per associazione in traffici illeciti Frank Garofalo di Castellammare del Golfo, residente a Palermo, Santo Sorce di Mussomeli abitante a New York, Vincent Martinez di Marsala, Gaspare Magaddino, Diego Plaja e Giuseppe Magaddino, tutti e tre di Castellammare, Giuseppe Corrito di Villabate, ma residente a Los Gatos negli USA, Giuseppe Scandariato di Castellammare, Filippo Gioè Imperiale di Palermo, Frank Coppola di Partinico residente a San Lorenzo in Ardea di Pomezia nel Lazio, Gaetano Russo di Palermo residente a New York, Rosario Vitalità di Taormina, Francesco Scimone di Boston residente a Taormina, Angelo Coffaro di Palermo, Giuseppe Bonanno e Giovanni Bonventre di Castellammare, Giovanni Priziola di Partinico residente nel Michigan, Camillo Galante di New York, Raffaele Quarsano di Detroit, Calogero Orlando di Terrasini.
Precursori di questa nuova associazione siculo-americana erano stati Salvatore Lucania (Lucky Luciano) e Frank Coppola, entrambi espulsi dagli USA, rispettivamente nel '45 e nel '48. Luciano riallacciò rapporti con il palermitano Pasquale Enea, indiziato nel 1909 dell'assassinio del tenente di polizia americana Joseph Petrosino, collegato ad una rete internazionale di contrabbando di droga e ai pregiudicati palermitani Rosario Mancino, Pietro Davì, Giacinto Mazzara e Antonino Sorgi.
Non mancava una ricca documentazione sui collegamenti tra le "famiglie" siciliane e quelle d'oltreoceano: il rapporto dell'americano Mc Clellan, le rivelazioni di Joseph Valachi, le note informative tra polizia italiana e statunitense.
Segni premonitori dell'inizio del traffico di stupefacenti tra Sicilia e Stati Uniti si erano avuti nel giugno del '49, quando la Guardia di Finanza arrestò a Ciampino l'americano Vincent Charles Trupie, un corriere che portava addosso 9 chili di eroina. Avrebbe dovuto consegnarli a Francesco Pirico, un milanese poi catturato.
Altri "segni": il 6 aprile 1951 all'aeroporto Urbe di Roma la Guardia di Finanza arresta l'americano Frank Callaci con 3 chilogrammi di eroina. Lo stesso giorno a Palermo viene bloccato l'italo americano Francesco Callaci, zio di Frank; nel luglio del '51 il nucleo di polizia tributaria di Roma controlla una serie di ditte farmaceutiche del Nord autorizzate al commercio di stupefacenti. Si scopre che dal '48 al '50 cinque ditte (Alfa di Savona, Lodi di Genova, Gastoldi di Genova, Sace e Saipom di Milano) hanno venduto 716 chili di stupefacenti regolarizzando i propri libri di carico e scarico con documenti falsi. Furono coinvolti nel traffico Salvatore Vitale, "Totò il piccolo" di Partinico fuggito in America, Cristofaro Caruso di Palermo, latitante, Agostino Simoncini e Salvatore Torretta di Palermo. Denunciate, al termine delle indagini, 23 persone, tra le quali Frank Coppola, allora latitante.
Chiusa la "fonte" delle farmacie, la mafia tenta di importare oppio dalla Jugoslavia e dalla Bulgaria e di impiantare in Sicilia un laboratorio clandestino per la sua lavorazione. La squadra mobile di Palermo e il nucleo di polizia tributaria delle "Fiamme Gialle" di Roma nel febbraio del '67 presentarono un dettagliato rapporto contro 91 persone. Ci sono tutti i nomi dei boss del ghota mafioso accanto ad altri meno noti. Al processo ne venne allegato un altro scaturito da un rapporto della sezione narcotici della squadra mobile del 23 febbraio '66 contro Gaetano Badalamenti, Giuseppe Bertolino, Pietro Davì, Elio Forni, Salvatore Greco, Angelo La Barbera, Rosario Mancino, Giacinto Mazzara e Antonino Sorci, tutti accusati come i "91" di "traffici illeciti".
A distanza di dodici anni questi processi sono paradossalmente ancorati alla fase istruttoria, dopo un palleggiamento di competenza tra il tribunale di Roma e quello di Palermo. La magistratura romana ha poi ammesso la competenza dei giudici palermitani. Ma gli atti si sono bloccati all'ufficio istruzione di Palermo in attesa che l'indagine giudiziaria prendesse il via. Naturalmente, a distanza di tanti anni, difficilmente l'inchiesta potrà essere avviata, sia per il gran numero di imputati che per tutte le incombenze formali richieste dalla nuova procedura. Tuttavia l'indagine avrebbe consentito un controllo sulla posizione dei boss della droga e, almeno, avrebbe fornito agli inquirenti una mappa aggiornata dei "gruppi" e dei loro capi. Non se ne è fatto niente.
Si tratta di processi ai quali si giunse tra il '65 e il '67, cioè dopo l'esplosione della "Giulietta-bomba" a Ciaculli e qualche anno dopo i rapporti congiunti di squadra mobile e carabinieri che tra il '63 e il '64, denunciarono prima un gruppo di 33 imputati capeggiati da Angelo La Barbera e, successivamente, altre 54 persone capeggiate da Pietro Torretta.
I due processi, abbinati e celebrati presso la Corte di Assise di Catanzaro si sono conclusi con condanne minime per associazione a delinquere e con l'assoluzione per tutti gli imputati, tranne che per La Barbera e Torretta.
Evidentemente squadra mobile e carabinieri sono venuti a conoscenza delle operazioni e dei controlli eseguiti dalla Guardia di Finanza soltanto a distanza di molti anni. Un gran numero degli imputati nei due processi tenuti a Catanzaro figurano nei rapporti delle Fiamme gialle. Se gli inquirenti avessero potuto leggerli nel '60, probabilmente si sarebbe potuto evitare lo spargimento di sangue provocato dalla lotta tra le cosche.
Si sarebbe dovuto costituire un centro misto di controllo della mafia tra polizia, carabinieri e guardia di finanza. Un centro con uno schedario da aggiornare almeno ogni mese per controllare gli stranieri e gli uomini dalla doppia nazionalità.
Il lavoro in comune fra i tre corpi di polizia avrebbe consentito di avviare il tentativo di disciplinare il settore degli autotrasporti e quello dei portuali, settori di cui spesso si serve la mafia per una vasta gamma di attività illecite. E si sarebbero potute controllare le società che spesso costituiscono soltanto il paravento di personaggi ben mimetizzati dietro una sigla insignificante per riciclare denaro sporco, per speculare, o usufruire delle provvidenze che lo Stato e le regioni dispongono per incentivare iniziative industriali e produttive nelle zone depresse.
13 maggio 1979
Quando la "la mala" tocca un intoccabile
Sul sequestro e sul rilascio della moglie dell'ex costruttore Giuseppe Quartuccio, sugli otto morti che seguirono alla liberazione di Graziella Mandalà, il colonnello Giuseppe Russo presentò un rapporto alla magistratura, l'ultimo della sua lunga carriera prima di lasciare il comando del nucleo investigativo dei carabinieri (26 ottobre 1976) per venire trasferito alla Legione di Palermo.
Russo presentò il rapporto ma non arrestò Quartuccio. Proprio al contrario di come si comportò il suo successore, il maggiore Antonio Subranni. Quest'ultimo il 23 dicembre dello stesso anno con un suo primo rapporto all'autorità giudiziaria arrestò Giuseppe Quartuccio come mandante degli omicidi di Francesco Renda, Elio Ganci, Schifando, Malfattore Spaduzza, Giaconia, Filippo e Salvatore Ganci. Arresto confermato dal giudice istruttore Marcantonio Motisi, che contestò all'ex costruttore il concorso in sei omicidi: Renda, Elio, Filippo e Salvatore Ganci, Schifaudo e Malfattore. Come si vede, pur essendone indiziato, non ha avuto ufficialmente contestati né gli omicidi Giaconia e Spaduzza, né la scomparsa di Vito Mangione, volatilizzatosi subito dopo il rilascio della Mandalà.
Vediamo come Subranni giunge alla determinazione di arrestare Quartuccio. Il suo rapporto rivela anche nei dettagli le sequenze del più eclatante giallo della malavita organizzata.
E' stato accertato che subito dopo il rapimento della moglie, Giuseppe Quartuccio "bussò" alla porta di un noto boss del triangolo Monreale-Uditore-Borgo Nuovo.
C'è chi in quei giorni consigliò a Quartuccio di rivolgersi al gioielliere di Monreale, Elio Ganci, famoso in certi ambienti per avere avuto un ruolo nella scomparsa del gestore del "bar Massimo" Vincenzo Guercio, rapito sotto la sua abitazione di Corso Calatafimi, il 10 luglio 1971. Il gioielliere, secondo le indicazioni dei carabinieri, era legato al clan di Gerlando Alberti e di Loreto Sordi, il capo della rivolta dell'Ucciardone nel 1957.
Quartuccio avrebbe chiarito le idee a se stesso il 23 luglio 1976, giorno in cui si recò nella gioielleria di via della Repubblica di Monreale.
"La prego – disse a Elio Ganci – mi aiuti a riavere mia moglie che è ammalata". Ganci choccato e turbato dall'inaspettata richiesta rispose confuso: "Ma... che c'entro io? Che ne so di questi fatti?". Dal turbamento di Ganci l'ex costruttore si sarebbe convinto che il gioielliere era proprio uno degli organizzatori del sequestro.
I carabinieri sono riusciti a ricostruire attraverso le dichiarazioni di alcuni protagonisti le fasi misteriose della liberazione della Mandalà.
Testi chiave dell'accusa sono Rachela Finocchio in Rizzo titolare di un esercizio di generi alimentari a Borgo Nuovo, e Francesca Calì ex amante di Vittorio Manno, il meccanico assassinato alla circonvallazione nel '74, e amica di Francesco Renda, Giovanni Orofino e Salvatore Enea, tre dei protagonisti del "giallo-Mandalà".
Francesca Calì, madre di un bambino nato dalla relazione con Manno, abita in una villetta a Partanna Mondello, dove in una stanza al primo piano la Mandalà viene tenuta prigioniera durante gli otto giorni del sequestro.
Erano stati Renda ed Enea ad imporre la presenza della signora Quartuccio alla Calì obbligandola a vivere per quei giorni al piano terra e lasciando disponibili le tre stanzette del primo piano. Si tratta di circostanze confermate da Francesca Calì che sostiene però di non aver mai visto la prigioniera e di aver intuito che Renda, Enea e Orofino avevano il ruolo di coordinatori di tutte le operazioni.
Queste ed altre testimonianze fanno credere ai carabinieri che i carcerieri della Mandalà siano stati nei primi giorni Renda, e successivamente Schifaudo, Malfattore, Spaduzza e Mangione.
Arriviamo così alla ricostruzione delle ultime fasi. E' la era del 29 luglio. Nella villa di Partanna Mondello, oltre alla Calì, si trovano Salvatore Enea al piano terra e, a quanto pare, Malfattore e Schifaudo di guardia al primo piano.
Improvvisamente una persona bussa alla porta. Risponde la Calì. Lo sconosciuto in modo autoritario dice che deve consegnare un messaggio. Poi dice di lasciarlo su uno dei tergicristalli dell'automobile di Enea, parcheggiata davanti alla villa. La Calì, appena lo sconosciuto si allontana, esce fuori per prendere il messaggio. Lo trova però sul muretto della villa, accanto al cancello. E' un pezzo di carta doppia color zucchero, come quella usata nei negozi di generi alimentari.
Aperto il messaggio, la Calì legge: "Mi trovo in mano ad amici. Liberate subito la donna perché sarà meglio per me e per voi". La firma è quella di "Francesco Renda". E non ci sono dubbi che sia la sua: qualcuno sulla carta color zucchero ha incollato la tessera di identità del Renda, quasi un'autenticazione della firma. Ciò che avviene da quel momento nella villa i carabinieri lo apprendono dalle dichiarazioni di Rachela Finocchio, amica di famiglia dei Reina, titolare del negozio di Borgo Nuovo dove – con tutta probabilità – Francesco Renda acquistava i viveri per la Mandalà.
La Finocchio ha raccontato di avere incontrato occasionalmente Vito Mangione, che terribilmente scosso e preoccupato le ha fatto delle confidenze ritenendo in pericolo la sua vita.
Un racconto drammatico, dalla notte del rapimento della Mandalà fino alla notte della sua liberazione.
Secondo questa ricostruzione, la moglie dell'ex costruttore è stata condotta direttamente da San Martino delle Scale nella villa di Partanna Mondello. Quella sera la Calì era stata invitata dagli amici del suo ex amante Manno a non farsi trovare a casa. La Mandalà fu così rinchiusa in una stanza al primo piano mentre i suoi custodi alloggiavano in una stanza attigua.
Il Mangione raccontò alla Finocchio della visita ricevuta la sera del 29 luglio dello sconosciuto e del messaggio.
Un messaggio che turbò profondamente Enea il cui sgomento si accentuò quando – dopo qualche ora – lo sconosciuto ritornò vicino alla villa gridando: "Ma, non vi siete ancora decisi? Lo capite che dovete liberare la donna".
Sembra che lo sconosciuto abbia anche raccomandato che i carcerieri avrebbero dovuto consegnare la prigioniera ad un suo parente; lo avrebbero trovato fermo a piazza Leoni, quasi all'ingresso della Favorita verso le 23,30.
Questa seconda "visita" disorienta i rapitori. Non sanno che fare. Decidono quindi di chiamare a raccolta tutto il clan. Nel giro di poco tempo si svolge una riunione, ma all'appello manca proprio Francesco Renda, il firmatario del messaggio. Si preoccupano e pensano che Renda possa essere caduto prigioniero nelle mani della mafia ed abbia rivelato il nascondiglio della Mandalà e i nomi dei complici.
Il "clan" decide di eseguire i consigli contenuti nel messaggio di Renda. Viene rubata una "128", si invita la Calì ad allontanarsi dalla sua abitazione ma non vengono eseguiti in tutto e per tutto i consigli dello sconosciuto. I carcerieri, infatti, temono di cadere anch'essi in un tranello. Invece di abbandonare l'auto con la Mandalà in piazza Leoni, si fermano in piazza Don Bosco.
Dirà poi Mangione a Rachela Finocchio: "Subito dopo ci riunimmo nella villa di Partanna Mondello. Eravamo preoccupati perché non avevamo più notizie di Francesco Renda. Tutti temevamo per la nostra pelle. Pensammo che della liberazione della Mandalà si fosse interessata la mafia: qualcuno di noi pensò alla mafia di Partanna Mondello. Il capomafia locale chissà forse si era risentito perché non informato di un sequestro che si svolgeva nella sua zona. Alla fine, preoccupatissimi, telefonammo a Monreale a Elio Ganci. Lo informammo di quanto era successo e Ganci ci disse che se il giorno dopo non avessimo saputo nulla su Renda ci saremmo dovuti recare a Monreale per discuterne con lui".
Secondo il racconto di Mangione alla Finocchio il gruppo in effetti la sera dopo, il 30 luglio, andò a Monreale. C'era una gran folla davanti alla gioielleria di via della Repubblica: Elio Ganci da mezz'ora era stato "giustiziato".
Il gruppo, ancor più disorientato, tornò frettolosamente a Palermo. Una volta uccisi Renda e Ganci, dissero in macchina, la mafia poteva ritenersi appagata in quanto loro avevano trattato bene la Mandalà e, obbedendo agli ordini ricevuti, l'avevano rilasciata appena ricevuto il messaggio di Renda. Decisero quindi di separarsi.
6 maggio 1979
Dietro Mandalà otto nomi, otto delitti
La notizia del sequestro di Graziella Mandalà viene pubblicata dal Giornale di Sicilia la mattina del 21 luglio 1976. Un sequestro che fa sensazione. Atipico: mai prima di allora la mafia aveva rapito in Sicilia, a scopo di estorsione, una donna. E per di più si tratta della moglie dell'ex costruttore di Monreale Giuseppe Quartuccio, ex socio di don Peppino Garda, il possidente al quale rapirono il nipote Franco Madonia.
Questi i fatti: è da poco trascorsa la mezzanotte del 20 luglio. Cinque banditi armati di mitra e di pistola bussano al villino di via San Martino delle Scale, residenza estiva della famiglia Quartuccio. L'ex costruttore sta per mettersi a letto, apre la porta e si ritrova di fronte un giovane che gli dice: "L'Opel di suo cognato si è scontrata con un'altra macchina. Corra all'ospedale".
Quartuccio si precipita verso la camera da letto per informare la moglie sofferente di cuore, e i cinque malviventi piombano dentro. Con il calcio di un mitra colpiscono al capo Quartuccio, lo legano mani e piedi e gli tappano la bocca con una striscia di carta adesiva. Mentre un bandito tiene a bada l'ex costruttore, gli altri prendono di peso la Mandalà e la portano fuori per strada dove c'è un'auto con un complice alla guida. Quindi la fuga con la "124" rossa, una scena alla quale assiste un villeggiante di San Martino che abita vicino.
Il clamoroso sequestro viene indagato dalla polizia e dai carabinieri nello scenario di cronaca nera, che in quel periodo sconvolge il Palermitano: fatti allora ancora oscuri.
In particolare, i carabinieri collegano il rapimento della Mandalà con il sequestro dell'enologo Franco Madonna, rapito a Roccamena l'8 settembre 1974, per i rapporti avuti in passato tra Garda e Quartuccio, presidente e amministratore rispettivamente della disciolta società edilizia "Conca d'Oro".
Insomma, un altro colpo della "nuova mafia" che tenta di far soldi e, contemporaneamente, di umiliare esponenti rappresentativi della vecchia guardia.
Non mancano le tesi alternative. Fra le altre, quella secondo cui il sequestro colpisce direttamente Quartuccio, ritenuto – non si sa ancora se a torto o a ragione – il cassiere dell'"Anonima sequestri" e, come tale, responsabile di qualche torto. E' una tesi avallata dalla circostanza che i fratelli della seconda moglie di Quartuccio, tra i quali Pietro Mandalà, sono in odore di mafia, anche se ufficialmente impegnati nella gestione di una avviata pizzeria in piazza Duomo a Monreale.
Gli uomini che seguono le indagini sin dalle prime battute (fra gli altri, il questore Domenico Migliorini, il capo della squadra mobile Bruno Contrada e il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo) pensano subito ad un sequestro per vendetta senza, però, riuscire a chiarire di che tipo di vendetta si tratti.
Giuseppe Quartuccio riceve la prima telefonata dei banditi tre giorni dopo il rapimento alle 13: "Quartuccio, prepara un miliardo e mezzo se vuoi viva tua moglie", gli dice una voce con inflessione dialettale interrompendo subito la comunicazione.
Da quel giorno i rapitori si fanno vivi con qualche telefonata all'avvocato Giuseppe Candido, amico di Quartuccio. Non si saprà mai chi ha segnalato loro questo nominativo. Quartuccio ritiene che sia stata la moglie: ma la Mandalà, dopo la liberazione, sosterrà di non essere stata lei.
L'ex costruttore riceve anch'egli un paio di telefonate a casa, ma, ogni volta, non gli lasciano il tempo di rispondere.
Mi dice in quei giorni Quartuccio: "Non riesco mai a dire una parola perché non me ne danno il tempo. Tramite l'avvocato Candido ho così fatto sapere ai banditi che tutte le mie proprietà possono valere 200 milioni".
Una somma che non basta ai rapitori. Altra telefonata: "Dunque, Quartuccio – dice la voce con tono sarcastico – lo dobbiamo fare questo concordato?".
Terza ed ultima telefonata all'ex costruttore, fatta fra il 26 ed il 27 luglio: "Quartuccio, la signora sta male, dovete sbrigarvi se ci tenete a volerla viva".
Ma, attraverso l'avvocato Candido, Quartuccio comunica ai banditi che può subito approntare soltanto 15 milioni. "Allora – è la risposta – Quartuccio non ci tiene ad avere sua moglie viva". E' l'ultimo contatto con i banditi.
Colpo di scena il 29 luglio alle 23,30. Un funzionario di banca ha appena parcheggiato la sua auto in piazza Don Bosco, sta per rientrare a casa quando una donna barcollando gli viene incontro. Pensa che si tratta di una ubriaca ma lei si presenta: "Sono Graziella Mandalà per favore mi aiuti". Pochi minuti dopo arriva un parente della signora e viene avvertito il marito a Monreale.
I banditi abbandonano la donna su una 128 blu, accostata ad un marciapiedi di piazza Don Bosco. Le dicono di non muoversi e, per precauzione, prima di lasciarla, le coprono gli occhi con dei cerotti.
A piazza Don Bosco arrivano immediatamente decine e decine di gazzelle e volanti con carabinieri e funzionari di polizia ai quali Quartuccio dichiara di non avere sborsato una lira per il rilascio. Inizia così il giallo del dopo-sequestro.
Poco dopo la liberazione della signora Mandalà un anonimo telefona al giornale "L'Ora": dice che alla circonvallazione, dietro il palazzo dell'Ente minerario siciliano, c'è un "pacco" con un cadavere. La polizia compie una perlustrazione nella zona ma del "pacco" non si trova traccia. Dall'interrogatorio della Mandalà frattanto saltano fuori vistose contraddizioni che tingono ancor più di giallo le fasi del rilascio della donna.
Sono trascorse dodici ore dal rilascio. Siamo in casa Quartuccio, in via Marsala a Monreale. E' piena di amici che si congratulano per la felice conclusione della vicenda. Dall'orologio del Duomo si sentono rimbombare dodici rintocchi. Quartuccio dà un'occhiata al suo orologio, lascia la moglie sofferente a letto ed esce.
Mezz'ora dopo alcune persone lo vedono dirigersi verso la piazza dove si trova l'oreficeria di Elio Ganci. L'ex costruttore passa davanti al negozio, si ferma col pretesto di guardare un amico che passa da lì. I carabinieri diranno poi che voleva farsi notare da Ganci. E ci riesce. Il gioielliere esce fuori e si avvicina a Quartuccio, si complimenta per la liberazione della moglie. Alcune persone assistono alla scena. Quartuccio e Ganci si abbracciano e si baciano. I carabinieri diranno che il marito della Mandalà si era voluto "godere" l'imbarazzo della "sua vittima", Ganci, che ritiene implicato nel sequestro della moglie.
Non esiste un pronunciamento della magistratura, ma certe coincidenze lasciano perplessi. Pochi minuti dopo che Quartuccio ha abbracciato e baciato Ganci, una 128 (del tutto identica a quella utilizzata dai rapitori della Mandalà per liberarla a piazza Don Bosco) procede lentamente per via Repubblica. Elio Ganci è soprappensiero davanti al suo negozio. Ad un tratto dalla macchina schizzano fuori due killer armati di calibro 38 e lupara. Una raffica di colpi e, per il gioielliere, è la fine. Senza riuscire a dare una risposta i carabinieri si chiederanno: "Quartuccio ha assistito all'esecuzione?".
"Esecuzione" avvenuta mentre il sostituto procuratore della Repubblica Domenico Signorino, sulla circonvallazione si trova davanti al cadavere di uno sconosciuto scoperto in seguito ad una segnalazione anonima, più precisa di quella giunta al giornale "L'Ora". Il "pacco" è appoggiato ad un montante di tufo davanti al cancelletto di via Collegio Romano, una piccola traversa della circonvallazione, quasi all'altezza di un grande magazzino, il Sigros.
Il giorno dopo, il 31 luglio, all'istituto di medicina legale, il cadavere viene riconosciuto da una donna di Borgo Nuovo per quello del marito, Francesco Renda. Il medico legale, Alfonso Verde, fa risalire la morte a circa 20 ore prima del ritrovamento e quindi a pochissime ore prima del rilascio di Graziella Mandalà.
Il corpo senza vita viene ritrovato legato mani e piedi dietro la schiena.
Renda, 41 anni, abitante in via Assoro 2 a Borgo Nuovo, sposato con Angela Rizzato, padre di due bambine, era una vecchia conoscenza di polizia e carabinieri. Il 30 gennaio 1976 fra l'altro era stato bloccato su una Mercedes nuova di zecca insieme a Salvatore Enea, 39 anni, anch'egli di Borgo Nuovo, e di Giovanni Orofino, fratello di Michele, imputato di omicidio. In quell'occasione in casa Orofino furono sequestrate delle armi.
I delitti Renda e Ganci vengono subito collegati da carabinieri e polizia, che non ne fanno un mistero, al sequestro Mandalà. Comincia, infatti, a farsi strada l'ipotesi di omicidi commissionati addirittura da Quartuccio e dal cognato, Pietro Mandalà, per vendicare l'affronto. In casa Quartuccio viene effettuata una perquisizione e i carabinieri sequestrano 15 milioni, in contanti, probabilmente il denaro che l'ex costruttore avrebbe voluto offrire ai banditi come acconto.
Mentre si tenta di far luce sui punti oscuri che trasformano in un vero e proprio giallo il rilascio della Mandalà, ecco altri due omicidi. La catena di sangue si allunga.
E' il dieci agosto 1976. Nicolò Malfattore e Vincenzo Schifando, 23 anni il primo, 22 il secondo, entrambi sorvegliati speciali, poco prima delle 17 sono in un circolo ricreativo nei pressi di piazza Scaffa. Qualcuno si avvicina e dice loro di essere attesi al bar vicino. Appena fuori, a due passi da piazza Scaffa, da una 128 rossa scendono due killer armati di calibro 38 e fucile a canne mozze. La "sentenza" viene eseguita con facilità: Malfattore muore subito, Schifano viene inutilmente trasportato all'ospedale dove arriva senza vita.
Gli inquirenti navigano nel buio. Per altri 23 giorni non accade nulla. Colpo di scena il 2 settembre: alle 5,15 un gruppo di killer sorprende Salvatore e Filippo Ganci, 56 anni il primo, 50 il secondo, fratelli del gioielliere Elio, assassinato 33 giorni prima a Monreale. L'agguato viene teso proprio davanti allo stand dei Ganci al mercato ortofrutticolo di Palermo mentre i due fratelli, insieme ad alcuni dipendenti, scaricano meloni da un camion.
Non è difficile abbatterli perché i killer giocano sulla sorpresa. Un altro loro fratello, Vincenzo, 52 anni, titolare dello stand, riesce a salvare la pelle perché al riparo, dentro lo stand.
Non si registrava un delitto all'"ortofrutta" da 18 anni: dal 1958, quando venne ucciso a raffiche di lupara Gaetano Galatolo, "zu Tanu Alati", il "re" della zona Acquasanta-Montalbo: da quel giorno prese il suo posto Michele Cavataio, uno dei quattro assassinati negli uffici Moncada di via Lazio il 10 dicembre 1969.
Anche il duplice omicidio dell'"ortofrutta" viene inquadrato nell'ambito delle vendette seguite al sequestro e al rilascio di Graziella Mandalà. Strenuo assertore di questa tesi è proprio il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.
Il contadino Calogero Mannino, conduttore di un fondo a "Piano dell'Occhio", tra Montelepre e Torretta, di proprietà di Lucrezia Prestigiacomo, residente in America, mentre ara il suo terreno coltivato ad uliveto si accorge che la pala del trattore rimane impigliata in un sacco. E' una scena macabra. Dentro una buca larga circa 60 centimetri e profonda 80 c'è un cadavere avvolto a metà dentro un sacco. Il corpo, con le braccia e le gambe legate dietro il tronco con una fettuccia di canapa, era stato infilato nel sacco dalla testa fino all'addome.
Il riconoscimento, all'istituto di medicina legale, è facilitato da due tatuaggi: una farfalla ed una sirena. E' proprio Stefano Diaconia, 42 anni, scomparso un paio di giorni prima. La conferma la dà la moglie, Maria Sarchina, abitante in via Re Federico.
La cronaca si era occupata di Diaconia il 23 aprile 1963 quando davanti alla sua pescheria di via Empedocle Restivo, un gruppo di kille sparò delle raffiche di mitra contro il boss Angelo La Barbera, in quel momento fermo sul marciapiedi a parlare con lui. La Barbera non fu colpito, invece Diaconia e due suoi dipendenti rimasero feriti. Un attentato che fece storia perché segnò la fine di La Barbera, costretto a fuggire prima a Roma e poi a Milano. Gli assassini continuarono a cercarlo e tentarono di ucciderlo proprio a Milano in viale Regina Giovanna. Ma La Barbera se la cavò con qualche ferita.
Giaconia, dal canto suo, dopo l'agguato di via Empedocle Restivo, finì all'Ucciardone dove rimase fino al famoso processo di Catanzaro, quello contro le cosche mafiose del Palermitano.
Il 22 settembre 1976, giorno della sua scomparsa, Stefano Giaconia, al soggiorno obbligato nel comune di Lanciano, si trova a Palermo essendo riuscito ad ottenere un permesso. Riusciva ad ottenerli spesso. Proprio il 22 scade la sua "vacanza" in famiglia. Di buon mattino esce da casa per andare alla stazione, poi nessuno ne ha notizia. Dopo quattro giorni il suo cadavere viene trovato in quel sacco sepolto dalla terra in una buca di "Piano dell'Occhio".
I carabinieri effettuano dei sondaggi nei pressi della "fossa" dove era stato seppellito Giaconia, trovano a qualche metro di distanza un altro cadavere in avanzato stato di decomposizione.
Per gli ufficiali dei carabinieri, alla medicina legale, non ci sono dubbi: si tratta del pregiudicato Salvatore Spaduzza, latitante da due anni; lo riconoscono perché ha un dente fratturato ed annerito. Ma, prima ancora di vedere il cadavere, quella stessa sera, i familiari di Spaduzza sostengono che non può trattarsi di lui. Il giorno dopo genitori, fratelli, parenti ed amici della vittima vanno tutti all'istituto di medicina legale del Policlinico. Pur traditi da una certa emozione, dicono tutti di non riconoscere Salvatore Spaduzza in quel cadavere.
I carabinieri pensano che soprattutto i genitori di Spaduzza abbiano così tentato di evitare ulteriori danni alla loro famiglia e agli altri fratelli della vitima.
Per i rapporti di amicizia tra Spaduzza, Francesco Renda (il primo morto della catena), Salvatore Enea e le due vittime di piazza Scaffa, Nicolò Malfattore e Vincenzo Schifando, i carabinieri collegano anche le due ultime vittime col sequestro della Mandalà.
Renda, i tre fratelli Ganci, Schifando, Malfattore, Spaduzza, Giaconia: otto nomi, otto delitti. Il giallo si infittisce. Le ipotesi di un collegamento al sequestro della moglie di Giuseppe Quartuccio si concretizzano. Ma l'inchiesta riserva delle sorprese.
29 aprile 1979
La "guerra del dopo Campisi-Corleo"
Del banchetto organizzato in un ristorante di Mazara del Vallo il 27 febbraio 1976 da Rosario Cascio (festeggiò così il contratto stipulato con la Lodigiani per costruire il cantiere-operai per la diga e per realizzare la galleria destinata a deviare il corso del fiume Belice fino al termine dei lavori) bisognerà ricordarsi come punto di partenza nelle indagini per l'omicidio a Ficuzza del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.
Quel giorno resterà una data importante perché, ancora una volta, si tentò di uccidere.
La comitiva si divise nel primo pomeriggio. I tecnici della Lodigiani tornarono a Garcia con le loro auto. Cascio si diresse con altri tecnici verso Montevago e Stefano Accardo si mise alla guida della sua "Mercedes" diretto a Partanna insieme al geometra Paolo Lombardino. Prima di lasciare Mazara, Accardo fece il pieno di benzina presso un distributore gestito da Antonino Luppino, un uomo con il quale scambiò qualche parola. Fatto il pieno la "Mercedes" partì per l'autostrada Mazara-Punta Raisi.
Secondo una ricostruzione attendibile, Luppino – subito dopo la partenza di Accardo e del suo compagno di viaggio – avrebbe informato qualcuno sull'itinerario della "Mercedes". E' certo comunque che, quando l'auto del boss giunse all'altezza dell'abitato di Castelvetrano, da una macchina affiancatasi in velocità furono sparati colpi di mitra e di pistola. La "Mercedes" fu ridotta ad un colabrodo ma sia Accardo che Lombardino rimasero feriti soltanto di striscio tanto che – dopo avere finto di essere morti – proseguirono verso Palermo.
Due le versioni sull'attentato fallito: Accardo doveva morire perché punito da chi lo ritiene autore della soppressione di Vito Cordio ovvero doveva essere eliminato perché le sue confidenze al colonnello Russo avevano consentito la denuncia degli autori dei sequestri Campisi e Corleo.
La risposta all'attentato non si fece attendere. Il 5 aprile, in contrada Ciaccio di Marsala, un "commando" a bordo di un'auto di grossa cilindrata assalì una "131" uccidendo il latitante Silvestro Messina e ferendo il fratello di Vito Cordio, Ernesto Paolo; si salvarono anche Giuseppe Ferro e Vito Vannutelli.
La paternità dell'agguato viene affibbiata ad Accardo, denunciato ma subito dopo scarcerato.
La serie continua con l'uccisione di Antonino Luppino, proprio il benzinaio di Marsala, probabilmente punito per le informazioni fornite al gruppo Messina-Ferro-Vannutelli.
Lunghissima la catena di sangue contrassegnata da nomi non sempre di spicco: Cucchiara, Ingrassia, Piazza, Nicolò Messina, Mario Cordio, Casano. Fino all'assassinio di Vito Vannutelli, fatto fuori non appena uscito dal Palazzo di Giustizia di Palermo dopo un rinvio del processo nel quale figurava imputato insieme a Giuseppe Ferro, a Nicolò Messina (ucciso a Mazara il 16 luglio '77) e al latitante Giuseppe Renda.
Vediamo come i carabinieri individuarono le responsabilità di Vannutelli, colpito da due ordini di cattura per il sequestro Corleo e per l'attentato a Stefano Accardo e Paolo Lombardino. Lo arrestarono per caso insieme a Nicolò Messina e a Giuseppe Ferro, anch'essi ricercati per i sequestri Corleo e Campisi.
I militari avevano organizzato in contrada Marchese, al confine tra il territorio di Monreale e quello di Camporeale, una battuta nel tentativo di rintracciare gli undici bovini rubati la notte tra il 18 e il 19 agosto '76 al pastore Vito Sciortino. Ad un tratto avvistarono due individui accovacciati e armati in mezzo ad un vigneto, a due passi da un casolare.
Appena videro le divise, i due fuggirono abbandonando una pistola ed un fucile a canne mozze. I carabinieri non riuscirono ad acciuffarli ma li riconobbero: erano Giuseppe Ferro e Giuseppe Renda. Poco dopo sul posto giunse una "126" con a bordo Vito Vannutelli e Nicolò Messina. Avevano un fucile a canne mozze, munizioni e due coltelli. Arrestati i due, si riuscì a mettere le mani addosso a Giuseppe Ferro, latitante da diverso tempo. A Vannutelli fu notificato un ordine di cattura per l'attentato ad Accardo e Lombardino e presentata una notificazione giudiziaria per il sequestro Campisi.
Per le armi di cui furono trovati in possesso al momento dell'arresto, Vito Vannutelli, Nicolò Messina e Giuseppe Renda furono rinviati a giudizio i primo febbraio 1977 dal giudice istruttore Mario Fratantonio. Ferro, fu poi condannato a due anni e sei mesi di reclusione, Vannutelli a due anni e Messina a un mese di arresto per favoreggiamento. Quest'ultimo, ritornato a Mazara, sarà ucciso il 16 luglio '77, quattro giorni dopo la sua scarcerazione.
E' l'ottavo omicidio della "catena". Contrastanti le tesi sul movente. Si è ventilata l'ipotesi di un seguito nella guerra fratricida in seno alla stessa cosca dei sequestri per la mancata divisione dei settecento milioni del riscatto Campisi. Effettivamente ci furono difficoltà per il riciclaggio del denaro a causa delle traversie giudiziarie delle persone che avevano i soldi.
Non manca chi sostiene che Nicolò Messina fu fatto fuori da un clan avverso e vicino a Stefano Accardo.
Né si può trascurare l'ipotesi che Nicolò Messina e, dopo, Vito Vannutelli siano stati eliminati perché ritenuti responsabili dell'identificazione di Giuseppe Ferro e di Giuseppe Renda in occasione del loro arresto in contrada Marchese a Monreale. Una delazione che avrebbe consentito ai carabinieri di individuare subito il nascondiglio di Ferro, arrestato mentre Giuseppe Renda, per la seconda volta, riusciva a sottrarsi alla cattura.
Una tesi non trascurabile quest'ultima. Di rilievo un particolare: quando il 5 luglio 1977 cominciò il processo per le armi trovategli al momento dell'arresto, Ferro non si presentò in aula per non incontrarsi con Vannutelli e Silvestro Messina, anch'essi detenuti.
Comparve in aula, invece, nel gennaio 1978 insieme al compaesano Giuseppe Filippi in occasione del processo per il sequestro Campisi. Notata, infine, la sua assenza dall'aula il 7 marzo 1978, in occasione del processo di secondo grado per cui era stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Anche questa volta avrebbe così evitato di incontrare sul banco degli imputati Vito Vannutelli.
Alcuni particolari meritano attenzione. Nicolò Messina venne ucciso subito dopo la sua scarcerazione. Vito Vannutelli, scarcerato per decorrenza di termini nel febbraio 1978, fu inviato al soggiorno obbligato a Favignana, dove i killer non avrebbero potuto raggiungerlo per le difficoltà che avrebbero incontrato al momento della fuga dall'isola.
Vannutelli è stato quindi atteso ad un varco ??? gato. Chi ha decretato la sua morte sapeva che sarebbe venuto a Palermo per il processo di secondo grado. All'andata Vannutelli avrà colto alla sprovvista i killer raggiungendo Palermo con la "Ford Capri" di un'amica, Concetta Patti. I killer lo hanno atteso all'uscita dal Palazzo di Giustizia. Vannutelli, alla guida della "Ford Capri" in compagnia della Patti e della sua amante Rosalia Signorello, appena fuori dal tribunale si diretto verso il Teatro Massimo. Ed è lì che gli assassini, a bordo di una "127" celestina, affiancarono l'auto. Con rara precisione spararono a lupara contro Vannutelli senza colpire le due donne. La "Ford Capri" rimasta senza guida e piombata sul marciapiede, schiacciò contro la cancellata una studentessa ribaltando poi sul giardinetto del Teatro. La sentenza era compiuta.
Con il delitto Vannutelli siamo giunti al marzo '78, ma di un vero e proprio giallo non abbiamo ancora parlato: quello del sequestro di Graziella Mandalà, avvenuto il 21 luglio 1976. Un sequestro clamoroso perché si tratta della moglie dell'ex costruttore di Monreale Giuseppe Quartuccio. Un sequestro atipico perché mai prima di allora la mafia aveva rapito in Sicilia una donna a scopo di estorsione.
Le date acquistano rilievo. Siamo nel luglio del '76. Un anno prima sono stati sequestrati Corleo e Campisi, vicende successive al sequestro di Franco Madonna, nipote di un personaggio "intoccabile" eppure colpito. I gregari, come si disse, alzavano la testa. La "nuova mafia" squinternava così un sistema basato su equilibri raggiunti dopo anni di lotte interne.
22 aprile 1979
Militari e magistrati, due modi di vedere
Mentre polizia e carabinieri tentavano di individuare le prigioni del prof. Nicola Campisi e dell'esattore Luigi Corleo si accertò che nelle province di Palermo e Trapani si era costituito un clan che aveva in programma una serie di sequestri. Era stata selezionata una rosa di nomi che, oltre a Campisi e Corleo, comprendeva Antonino Fiore nato a Castelvetrano nel 1920 e residente a Menfi, commerciante di tessuti, Andrea Palermo di Partanna residente a Menfi, notaio, Diego Planeta residente a Menfi, possidente e presidente della cantina sociale "Sottesoli" di Menfi.
Da non dimenticare che in quel periodo la mafia aveva subito dei consistenti contraccolpi. In Canada era stato arrestato un fratello del capomafia di Salemi, Salvatore Zizzo, perché trovato in possesso di una grossa partita di droga. A Cittadella si trovò un altro quantitativo di droga nelle mani di Giuseppe Palmeri di Santa Ninfa, socio dello Zizzo.
A Palermo gran parte dei contrabbandieri di sigarette erano stati allontanati dalla città ovvero arrestati in seguito allo scandalo del furto dei 15 MAB nella caserma di Torre del Corsaro. Nei pressi di Roma le forze di polizia sequestrarono in un grande magazzino di Fernando Lena, noto col nome di "Nando", macchinari tipografici per la stampa di falsi traveller cheques. In un angolo fu trovata carta speciale stampata per oltre tre milioni di dollari statunitensi in traveller cheques della Bank of America.
In crisi anche il settore della sofisticazione del vino dopo le operazioni di polizia con cui si scoprì una organizzazione che comprendeva pure il boss di Bagheria, Tommaso Scaduto, riuscito a fuggire dal soggiorno obbligato dell'Asinara.
In crisi anche il vertice della mafia per gli arresti di Luciano Liggio a Milano, di padre Agostino Coppola e dei suoi fratelli a Partitico, di Gerlando Alberti a Napoli.
Si tratta di consistenti contraccolpi che provocano un certo sbandamento nell'"organizzazione" e la ricerca di quattrini da parte di tanti gregari.
Si giunge così alla costituzione di quel clan che è praticamente una nuova "Anonima sequestri" siciliana, a capo della quale secondo voci confidenziali si sarebbe trovato Vito Cordio, 42 anni, figlioccio di Salvatore Zizzo e capo della famiglia mafiosa di Santa Ninfa.
Si tratta di confidenze che si ebbero dopo l'arresto del boss di Partanna (Trapani), Stefano Accardo, un personaggio di primo piano in materia di sequestri, appalti e subappalti nella Valle del Belice, e – quel che più conta – nelle vicende della diga di Garcia. Un aspetto sul quale torneremo.
Subito dopo il sequestro di Luigi Corleo, Accardo fu arrestato perché trovato in possesso di una pistola. Non fu però condannato perché in suo favore testimoniò il maresciallo dei carabinieri Guazzelli, braccio destro del colonnello Russo nel Trapanese. Ci si chiede quale sia stato il prezzo pagato da Accardo per quella testimonianza che gli consentì di tornare libero.
Al quesito non c'è risposta. E' certo che, dopo la scarcerazione di Accardo, scomparve misteriosamente il boss di Santa Ninfa Vito Cordio, l'anima dell'"Anonima sequestri". Ed è anche certo che Accardo in quel periodo si incontrò spesso con il colonnello Russo. Si dice che Corleo sia morto di fame e di sete subito dopo la scomparsa di Vito Cordio perché, dopo la fine del capo, nessun componente del clan avrebbe rifornito di viveri il prigioniero. E' una voce non controllabile che riferiamo per completezza.
I rapporti tra Vito Cordio e Stefano Accardo avevano fatto registrare nell'ultimo decennio profonde spaccature. Cordio aveva cercato di imporre nella zona del Belice la legge del suo gruppo. E si accertò poi che la nuova "anonima sequestri" era composta da "famiglie" di Trapani, Agrigento e Palermo coordinate da Vito Cordio che aveva ottenuto lo "sta bene" della mafia contraria, però, al sequestro Corleo. A questo sequestro la mafia aveva detto "no". Lapidaria, ma anche storica, l'espressione attribuita a Vito Cordio: "A me hanno detto di no per Corleo, ma si sa che loro lo fanno lo stesso".
E di Cordio, probabilmente ritenuto incapace di garantire gli equilibri e l'ordine nella zona, si perdono le tracce.
Proprio nel periodo dei sequestri Corleo e Campisi, un gruppo di forestieri viene ospitato a Menfi nella baracca di un cantiere edile dell'impresa Paralisi. Li ospita Gaspare Biundo, di Partanna, che spesso accompagna gli amici al ristorante "La Fattoria" di Monreale di Settimo Failla.
Le indagini del colonnello Russo portano all'identificazione dei "forestieri". Sono gli evasi Dante Anzi di Roma e Pasquale Bianchini di Albano Laziale: un terzo sarebbe Giorgio Graziani soprannominato "dracula" abitante a Roma in via Genoano 194, dove, nel corso di una perquisizione, vengono trovati due assegni della Banca agricola commerciale di Reggio Emilia, agenzia città Valle Ospizio, entrambi emessi sul conto corrente di Girolamo Scaglione, nato ad Alcamo nel '45 e residente a Reggio Emilia. Sono assegni da uno e due milioni. Si indaga così per scoprire i collegamenti fra "dracula" e Scaglione il quale aveva ospitato alcuni ricercati, compreso Pasquale Bianchini detto "Castrici" e i suoi compaesani Giuseppe Ferro e Giuseppe Renda, ricercati per i sequestri Campisi e Corleo.
Scaglione e il francese
Scaglione in quel periodo conviveva con Marie Pierre Monito, francese che aveva depositato nel '75 diciotto milioni in una banca di Cavirago (Reggio Emilia). Saltarono fuori i rapporti di amicizia di Scaglione con Pietro Salerno, un mediatore di bestiame originario di Pacco (Trapani) dov'era nato nel 1917, che si costruì una villa del valore di cento milioni.
Una svolta nelle indagini si ebbe comunque con il rilascio del professor Nicola Campisi liberato all'alba dell'11 agosto 1975 dopo il pagamento di un riscatto di 700 milioni. La prigionia era durata 41 giorni.
Campisi fu lasciato dai banditi intorno alle 2,30 del mattino alle porte di Sancipirello. Una pattuglia dei carabinieri sorprese una lambretta che procedeva a fari spenti con due uomini a bordo che, vedendo i militari, tentarono invano la fuga. Mentre i carabinieri stavano controllando i documenti, uno dei fermati, poi identificato per Giuseppe Renda di Alcamo, riuscì a fuggire. L'altro, portato alla caserma di Sancipirello, era Giuseppe Filippi, anch'egli di Alcamo.
Secondo le prime testimonianze del professor Nicola Campisi, lo avrebbero accompagnato alle porte del paese due uomini proprio su una lambretta.
L'interrogatorio di Filippi si protrasse a lungo. Passò da una versione all'altra. Disse prima di trovarsi vicino a Sancipirello per comprare della paglia insieme a Giuseppe Renda. Poi sostenne di essere stato fermato da alcuni uomini incappucciati che gli ordinarono di accompagnare il professor Campisi in paese e di averlo fatto soltanto per paura. Ammise, infine, la sua partecipazione al sequestro affermando di essere disponibile per fare recuperare il bottino, nascosto in un casolare di campagna sotto alcune balle di paglia.
Le dichiarazioni di Filippi non furono verbalizzate perché forse i carabinieri avrebbero voluto farlo confessare davanti al sostituto procuratore della Repubblica, Vincenzo Geraci, che conduceva le indagini.
La stessa sera dell'11 agosto, Filippi fu accompagnato in contrada Montagnola di Camporeale. In un casolare di proprietà di Giuseppe Renda, probabilmente la prigione di Campisi. E la mattina del 12 agosto Filippi condusse il colonnello Russo, il maresciallo Scibilia ed altri carabinieri in un suo deposito di paglia, in contrada Canapè, fra Alcamo e Camporeale.
Lì – disse – avrebbero trovato il riscatto nascosto in mezzo alle balle di paglia. Una volta dentro il magazzino, Filippi chiese che gli fossero tolte le manette. Il colonnello Russo si guardò intorno, vide che c'era soltanto una piccola finestra sbarrata da una grata di ferro, e consentì.
Ma, appena libero, Filippi si inerpicò sulla catasta di balle che toccava quasi il tetto, con un colpo di testa fece saltare alcune tegole e fuggì lasciando di stucco i carabinieri che lo riacciuffarono soltanto otto giorni dopo in casa di una sorella ad Alcamo.
Un elemento al quale si diede una grande importanza fu il ritrovamento nel casolare di campagna di Giuseppe Renda dei frammenti di una busta arancione. Ricostruiti, misero in evidenza una scritta: "Ugo Testoni – Sciacca". Il professor Nicola Campisi dilettere con busta arancione indirizzate allo zio Ugo ne scrisse due. Ma a Testoni una delle due lettere giunse dentro una busta aerea con l'indirizzo scritto con un normografo. Da qui la convinzione che i banditi, prima di recapitarla, ne aprirono una e sostituirono la busta. D'altronde lo stesso Campisi riconobbe come sua la grafia dei frammenti di busta arancione trovati nel casolare di Renda. In sede giudiziaria, sulla validità di questa "prova" si è scatenata una schermaglia destinata a far saltare a tempo indeterminato il processo per il sequestro Campisi. Chiese la perizia tecnica e grafica il difensore di Renda, l'avvocato Paolo Seminara.
Un tassello dopo l'altro
I carabinieri un tassello dopo l'altro tentavano di ricostruire il mosaico. Ecco altri elementi ritenuti importanti. L'otto agosto 1975, quaranta minuti dopo mezzanotte, una pattuglia dei carabinieri bloccò sulla strada Montelongo il pregiudicato Giuseppe Ferro di Alcamo. Proprio in quella zona era passato quella sera il padre di Nicola Campisi che avrebbe dovuto consegnare i 700 milioni di riscatto ai banditi, secondo le indicazioni ricevute. Ma l'avvocato Renzo Campisi non incontrò nessuno.
Giuseppe Ferro raccontò ai militari che stava tornando da un suo podere in contrada Pigno e fu rilasciato. Ma i carabinieri non lo persero di vista e, il giorno dopo, lo scoprirono mentre telefonava dal bar Vacano di Alcamo Marina in casa Campisi a Sciacca. Non lo arrestarono subito. Decisero di farlo due giorni dopo quando Ferro era già sparito. La sua presenza, insieme a quella di Renda, sarà poi segnalata a Reggio Emilia in casa di Scaglione e di Salerno.
Al termine delle indagini per il sequestro Campisi i carabinieri denunciarono 20 persone di cui due identificate soltanto con i soprannomi. Di queste ne furono arrestate otto. Ventidue le persone denunciate invece per il sequestro Campisi.
I due processi comunque si dividono non ravvisando né la procura della Repubblica di Marsala, né quella di Palermo, elementi di connessione. Il fascicolo su Luigi Corleo finisce così a Marsala e quello su Nicola Campisi a Palermo.
Un mese dopo la stesura dei rapporti di denuncia si scatena nel palermitano e nel trapanese una guerra spietata fra le cosche implicate nei due sequestri. E' una diretta conseguenza dei primi provvedimenti adottati dalla magistratura di Palermo. Il riferimento corre agli ordini di cattura emessi dal sostituto procuratore Vincenzo Geraci nei confronti di Giuseppe Ferro, Giuseppe Filippi, Giuseppe Renda. Tutti gli altri denunciati dai carabinieri hanno così via libera. Questo tra la fine del '75 e l'inizio del '76.
Dal canto suo, la procura della Repubblica di Marsala il 2 febbraio '76 emette ordini di cattura per associazione a delinquere contro Giovanni Lala, Nicolò Mangiaracina, Silvestro Messina, Angelo Caravà, Gregorio Gulli, Girolamo Scaglione, Salvatore Secolonovo, Mario Stella, Gaspare Biundo, Natale Lala, Leonardo Messina, Antonino Genco, Baldassare Nastasi, Andrea Terranova, Giuseppe Zummo, Silvestro Leopardi, Vittorio Carpino, Giorgio Graziani. Colpiti dai mandati di cattura, inoltre, Vito Gondola, Vito Cordio (scomparso), Antonino Messina, Salvatore Invoglia e Paolo Saladino.
Una selezione
Al termine della prima fase istruttoria si ha però una selezione con la scarcerazione "per mancanza di indizi" di Gregorio Gulli, Girolamo Scaglione, Gaspare Biundo, Natale Lala, Leonardo Messina, Antonino Genco, Andrea Terranova, Giuseppe Zummo, Silvestro Leopardi, Vittorio Carpino e Giorgio Graziani.
Comincia nei giorni in cui questi ultimi tornano in libertà la "guerra" tra le due cosche.
E' il 27 febbraio 1976. In un ristorante di Mazara del Vallo c'è un banchetto. Presenti l'imprenditore di Montevago Rosario Cascio, il suo protettore Stefano Accardo di Partanna, l'ingegner Ero Bolzoni direttore per conto della Lodigiani dei lavori di costruzione della diga Garcia e il geometra Paolo Lombardino, imprenditore edile anch'egli.
Rosario Cascio festeggia così il contratto stipulato con la Lodigiani per costruire il cantiere-operai per la diga e per realizzare la galleria destinata a deviare, fino al termine dei lavori, il corso del fiume Belice. E' un banchetto di cui bisognerà ricordarsi, come punto di partenza, nelle indagini per l'omicidio a Ficuzza del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.