20 maggio 1979

 

Da Garcia a Russo a Garcia

E' sera. Nella piccola casetta al primo piano in piazza, a Ficuzza, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, la moglie Mercedes Berretti e la piccola Benedetta hanno appena terminato di cenare. Hanno lasciato Palermo nel pomeriggio. La signora Mercedes è stanca, preferisce riordinare la cucina e andare a letto. Russo invece vuol fare due passi. Esce e chiama un amico che abita vicino, l'insegnante Filippo Costa.

E' la sera del 20 agosto 1977, ore 21.30.

In maglietta e pantaloncini, sotto il cielo stellato, fiancheggiando il porticato della caserma della Forestale, Russo e Costa passeggiano diretti verso il bar della piazza. Nessuno saprà mai di cosa parlano.

Al bar entra soltanto Russo per fare una telefonata. Costa attende fuori. Un minuto dopo i due amici riprendono la loro passeggiata. Un teste interrogato dai carabinieri, Felice Crosta, ha detto: "Alle 22 li ho visti. Erano diretti verso la parte alta della piazza lungo il viale parallelo a quello principale".

Nello stesso momento c'è chi si accorge di una "128" verde che procede lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di Russo e Costa. Divide i due viali un largo marciapiedi in parte alberato. L'auto continua la sua marcia fino alla parte alta della piazza, effettua una conversione ad "U" e si ferma proprio davanti all'abitazione del colonnello Russo.

I due amici sono vicini alla macchina degli assassini. Non se ne rendono conto. Non possono. Si fermano, Russo tira fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di "Minerva".

Russo non ha il tempo di accendere la sua ultima sigaretta. Sono le 22,15. Dalla 128 scendono tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminano verso i due. Appena sono vicini aprono il fuoco con le calibro 38. Sparano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che ha il compito di uccidere Costa.

Sono killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cade addosso. Si rialza immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbraccia il fucile sparando alla testa. E' il colpo di grazia. Il killer vuol essere certo che l'esecuzione sia completa e mira anche alla testa dell'insegnante Filippo Costa. E' il secondo colpo di grazia. Si può andar via. Ma l'ultimo killer nella fuga perde gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo.

Numerose persone assistono a queste drammatiche sequenze e, soprattutto, alla fuga perché i killer, a bordo della 128, passano proprio davanti al bar.

Ci si convince subito che si tratta di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima.

Fatti e misfatti di una diga

La scelta di Ficuzza come teatro di esecuzione non è occasionale. Entrambi potevano essere uccisi più facilmente in altri posti. Russo in via Ausonia sotto casa a Palermo, Costa a Misilmeri dove abita. Invece no. La mafia voleva una esecuzione spettacolare ed esemplare.

I mandanti avranno fatto ricorso a killer che conoscono zona ed abitudini del paese. Dovevano sapere, per esempio, che quella sera il "posto" della Forestale era sguarnito e non correvano alcun rischio nel primo tratto di fuga: un chilometro che, senza possibilità di deviazioni nel caso di sorprese, conduce da Ficuzza alla biforcazione del fondo Marino: una strada porta a Corleone e l'altro braccio a Marineo.

Gli appunti trovati su Russo, sulla sua "127", in casa e alla Legione imprimono alle indagini sin dalle prime battute un preciso indirizzo: la diga Garcia. Questa la pista dei carabinieri, che si ritrovano davanti alla formula: mafia-Garcia-sequestro Corleo.

Russo quando muore è al settimo mese di convalescenza. Il mese successivo avrebbe dovuto presentarsi ad una visita fiscale: se l'esito fosse stato positivo si sarebbe definitivamente ritirato dall'Arma.

Ci si chiede quindi quale strada l'ufficiale avrebbe voluto percorrere nel caso di congedo. Squadra mobile e Criminalpol indagano sulle sue amicizie. Soprattutto una, quella dell'imprenditore di Montevago Rosario Cascio. Poi: il progetto di un'industria da realizzare in Liberia, alcuni suoi viaggi a Roma con Cascio, la sua partecipazione in una società, la Rudesci.

Tutti fatti sui quali si indaga. Alla fine, la polizia e carabinieri concordano su un punto: Russo è caduto per aver cercato di ripristinare l'ordine ed evitare soprusi nella corsa dei gruppi mafiosi verso i remunerativi subappalti ruotanti intorno ai lavori per la costruzione della diga Garcia (costo: 300 miliardi circa).

In particolare, il colonnello Russo avrebbe tentato di non far perdere al suo amico Rosario Cascio il lavoro che si era legittimamente conquistato nella diga Garcia, da dove alcuni gruppi di mafia lo avevano cacciato con una serie di violenze.

Il tentativo di Russo non è stato però gradito dalla mafia che intravide nella sua intromissione un serio pericolo per la realizzazione dei programmi iniziati nel '74 con alcuni sequestri-monstre, finalizzati al predominio assoluto nella zona di Garcia e nella valle del Belice.

Un pericolo non infondato perché i gruppi di mafia in fermento avevano già avuto modo di conoscere la tenacia di Russo, soprattutto nella lotta alla "Anonima sequestri".

La nuova mafia ormai aveva preso il sopravvento. E uno dei suoi obiettivi era quello di cancellare l'impresa di Rosario Cascio, di escluderla dai numerosi appalti, cominciando proprio dalle forniture alla Lodigiani, che in quel periodo avrebbe dovuto eseguire lavori per 21 miliardi.

Cascio è considerato una pedina fondamentale dei vecchi equilibri della zona, quelli che non piacciono alla nuova mafia. Inoltre era amico di Russo e aveva le spalle protette da Stefano Accardo, il boss di Partanna-Trapani che sarebbe stato uno degli artefici del fallimento del sequestro Corleo.

Rosario Cascio, nel corso dell'inchiesta giudiziaria poi affidata al giudice istruttore Pietro Sirena, dichiara di essere stato estromesso dall'ingegner Ratti dell'impresa Lodigiani. Ma Ratti lo esclude. In marzo – è la sua tesi – ci sono pervenute due offerte, una della ditta Cascio e l'altra della "INCO". Abbiamo ritenuto più conveniente quella della "INCO".

Soffermiamo la nostra attenzione su questa sigla: è quella di una società con sede iniziale a Camporeale, fondata il 26 giugno 1970, registrata a Monreale; ha il programma di aprire cave, lavorare la pietra e fornire materiale alle imprese che ne hanno bisogno. Una società modesta la "INCO", con capitale iniziale di un milione e duecento mila lire. Ne fanno parte l'imprenditore di Monreale Francesco La Barbera, Giovanni Lanfranca di Camporeale e il cognato di quest'ultimo, il geometra Giuseppe Modesto, dipendente dell'amministrazione provinciale di Palermo, segretario dell'assessore delegato alle opere finanziate dalla Cassa del Mezzogiorno. Strano compito quello di Modesto che, fra l'altro, richiede 200 milioni alla "Cassa" proprio per potenziare le attrezzature della "INCO".

La società il 10 luglio 1971 porta il suo capitale a 150 milioni e il 22 luglio 1974 a 200 milioni. E' l'anno in cui Giuseppe Modesto assume la presidenza della "INCO".

Negli ultimi mesi del '76 la "INCO" è in crisi: "La situazione redditizia – si legge nella relazione di fine anno allegata al bilancio – è negativa per il ridotto regime di attività degli impianti nel corso dell'esercizio 1976 e per la pesante incidenza degli oneri finanziari per debiti a breve scadenza, oltre che per il ritardo del contributo della Cassa del Mezzogiorno".

Per la prima volta, la "INCO" così fa ricorso al fondo di riserva. La società si presenta in queste condizioni come alternativa all'impresa di Cascio concorrendo all'appalto per le forniture alla Lodigiani.

Non si può escludere che il colonnello Russo, dopo essersi tanto adoperato per far superare a Cascio una serie di difficoltà poste da una precedente operazione da effettuare in Liberia, abbia pensato che c'era un solo modo di salvare l'amico reinserirlo nelle forniture di Garcia.

Non avrà tentato il colonnello Russo di raggiungere un compromesso con la "INCO" che, non essendo in grado di garantire le forniture richieste dalla Lodigiani, avrebbe potuto reinserire Cascio nel gioco?

Morto Russo, la risposta a questa domanda è finita nella tomba con lui. C'è però una dichiarazione di Rosario Cascio, che mi ha rilasciato subito dopo l'interrogatorio del giudice Pietro Sirena, che val la pena di rileggere. Dalle sue parole non si esclude l'"ingerenza" di Russo.

"Non comprendo come i Lodigiani e i suoi tecnici – dice – soltanto ora rivelano al giudice istruttore che io sono stato estromesso perché l'impresa aveva ritenuto più vantaggiose le offerte della INCO. Da maggio ad ora nessuno aveva accennato ad offerte della INCO: né io, come erroneamente sostenuto da Lodigiani, a marzo ho fatto offerte per aggiudicarmi le forniture a Garcia in concorrenza con la INCO. E' vero che io già rifornivo i Lodigiani e che a marzo avevo soltanto presentato una variazione di prezzi adeguandoli ai nuovi costi. Continuai le forniture anche dopo la presentazione dei nuovi prezzi che non furono mai né respinti né contestati, come dimostrano le fatture di pagamento. L'offerta della INCO è spuntata dopo la morte di Russo e non posso neanche escludere che si tratti di un'offerta perfezionata in un secondo momento e, comunque, dopo i fatti di Ficuzza, magari per togliere da ogni imbarazzo i Lodigiani e i suoi tecnici. Comunque la INCO non potrà garantire le forniture che soltanto la mia imprese riesce a produrre per l'attrezzatura di cui è fornita e che le consentono di far fronte contemporaneamente alle esigenze di tutte le imprese che operano nel Belice".

Alla luce di queste parole appare verosimile che Russo chiedesse il rispetto della legalità a chi della legalità è irriducibile nemico, il rispetto della giustizia per Cascio a chi nell'ingiustizia prolifera.

"Russo si è spinto", si sussurrò negli ambienti vicini a Cascio. Il suo era un temperamente impulsivo ma generoso. Si spingeva fino alle estreme conseguenze quando era convinto di essere dalla parte della giusta causa. Un temperamento che lo avrà indotto – magari con durezza – a chiedere giustizia per un amico, cosa che gli è costata la vita.

La magistratura, per avallare questa tesi, cerca l'aggancio Russo-Costa alla causa di Cascio. Ma non era forse Filippo Costa l'unico amico che l'ufficiale aveva a Ficuzza e al quale poteva confidare, durante le passeggiate, i suoi problemi? Russo non aveva molti amici. Ma un amico era l'insegnante Costa, probabilmente a conoscenza dell'affare-Cascio.

E, ammesso che Russo non avesse rivelato nulla a Costa, chi avrebbe potuto convincere gli assassini?