18 marzo 1979

 

I rapporti tra le cosche sicule e mafia italo-americana

Mafia, fenomeno in continua evoluzione, anche nel '78 contraddistinto da una sua peculiarità. Ai delinquenti assassinati nell'ambito della lotta tra cosche, alle mezze cartucce uccise per "regolamento di conti", come dicono gli inquirenti, nel '78, si sono aggiunte alcune morti decisamente atipiche. Delitti che hanno fatto pensare a ristrutturazioni nell'"organizzazione", a lotte intestine per l'attribuzione di cariche direzionali in seno alle "famiglie" di Palermo, delle sue borgate e dei comuni della provincia. Eravamo abituati a registrare, dal lontano 1957, omicidi nell'ambito della guerra di cosche contrapposte: tra "liggiani" e "navarriani", tra seguaci di La Barbera e dei Greco. "Si uccidono tra loro", era il commento dei dirigenti della squadra mobile e degli ufficiali dei carabinieri. Ma nell'ambito di quale guerra si possono collocare gli omicidi di persone come l'avvocato Gaetano Longo, per molti anni sindaco di Capaci, consigliere comunale democristiano, direttore della Banca del Popolo di Palermo, o dell'avvocato Ugo Triolo di Corleone, vice pretore onorario di Prizzi? Difficile – per non dire impossibile – dare una risposta a questa domanda. Anche perché le analisi sulla mafia sono diventate veramente complesse negli ultimi anni. Si pensi, per esempio, alla sua espansione determinata anche dall'indiscriminata applicazione di misure di prevenzione con provvedimenti di soggiorno obbligato in comuni lontani dalla Sicilia: si è finito per esportare mafiosi e delinquenti comuni in tutta la penisola. E si son esportate anche sacche di miseria, di problemi individuali, certamente non risolti dalle 700 lire al giorno previste per i più indigenti.

Si sono così creati vasti strati di diseredati, esposti ad umiliazioni e disagi, facile preda di un'"organizzazione", come si è detto, pronta all'assistenza, alla collaborazione, alla solidarietà. Naturalmente, a patto che a tutto ciò corrisponda disponibilità, rispetto, omertà.

Non si spiega, altrimenti la potenza organizzativa raggiunta da gruppi ai quali fanno capo Luciano Liggio, Gerlando Alberti, i cugini Greco di Ciaculli, Frank Coppola. Personaggi diventati dei veri e propri "simboli" per emarginati che avvertono lo Stato addirittura come espressione di una casta prevaricatrice ed iniqua.

Polizia e carabinieri non avrebbero mai potuto controllare questo gran numero di pregiudicati distribuiti in diverse regioni del Paese. Contemporaneamente si è avuto il perfezionamento dei mezzi di trasporto e di comunicazione. Ciò ha facilitato la ricerca e il consolidamento dei rapporti tra confinati e gruppi di mafiosi stabilitisi sin dagli anni '60 in Piemonte, Lombardo, Lazio, Toscana e Campania per tenere stretti collegamenti con gli italo-americani di "Cosa nostra".

La mafia si evolveva e le forze di polizia restavano con mezzi inadeguati mentre si approvavano leggi buone nel campo dei diritti civili. Ma proprio queste leggi hanno messo in moto un meccanismo perverso. Si pensi alla legge che garantisce la riservatezza delle conversazioni telefoniche, alle innovazioni del codice di procedura penale finalizzate al potenziamento dei diritti di difesa di ogni cittadino ma anche di ogni imputato, alla riforma carceraria con l'introduzione dell'uso del telefono nelle prigioni.

Uomini come Liggio, Coppola, Alberti, Buscetta, pur detenuti, assicurando con il loro prestigio un certo ordine nel carcere hanno goduto in contropartita di privilegi che hanno consentito loro di tenere collegamenti con l'esterno e, soprattutto, con i luogotenenti.

Abbiamo fatto un cenno su "Cosa nostra". I rapporti tra le "famiglie" d'oltreoceano e quelle siciliane si concretizzano nel varo di un programma comune a carattere internazionale formalizzato, o meglio ratificato nelle "assise" di mafia all'albergo Arlington di Binghmantoan dal 17 al 19 ottobre 1956, all'Hotel des Palmes di Palermo dal 12 al 16 ottobre 1957 e ad Apalachin il 14 novembre 1957.

Un rapporto della squadra mobile del 28 luglio '65 mise in evidenza l'intensa attività nel traffico di stupefacenti, valuta e tabacco tra Stati Uniti e Sicilia. Il 31 gennaio '66 vennero rinviati a giudizio per associazione in traffici illeciti Frank Garofalo di Castellammare del Golfo, residente a Palermo, Santo Sorce di Mussomeli abitante a New York, Vincent Martinez di Marsala, Gaspare Magaddino, Diego Plaja e Giuseppe Magaddino, tutti e tre di Castellammare, Giuseppe Corrito di Villabate, ma residente a Los Gatos negli USA, Giuseppe Scandariato di Castellammare, Filippo Gioè Imperiale di Palermo, Frank Coppola di Partinico residente a San Lorenzo in Ardea di Pomezia nel Lazio, Gaetano Russo di Palermo residente a New York, Rosario Vitalità di Taormina, Francesco Scimone di Boston residente a Taormina, Angelo Coffaro di Palermo, Giuseppe Bonanno e Giovanni Bonventre di Castellammare, Giovanni Priziola di Partinico residente nel Michigan, Camillo Galante di New York, Raffaele Quarsano di Detroit, Calogero Orlando di Terrasini.

Precursori di questa nuova associazione siculo-americana erano stati Salvatore Lucania (Lucky Luciano) e Frank Coppola, entrambi espulsi dagli USA, rispettivamente nel '45 e nel '48. Luciano riallacciò rapporti con il palermitano Pasquale Enea, indiziato nel 1909 dell'assassinio del tenente di polizia americana Joseph Petrosino, collegato ad una rete internazionale di contrabbando di droga e ai pregiudicati palermitani Rosario Mancino, Pietro Davì, Giacinto Mazzara e Antonino Sorgi.

Non mancava una ricca documentazione sui collegamenti tra le "famiglie" siciliane e quelle d'oltreoceano: il rapporto dell'americano Mc Clellan, le rivelazioni di Joseph Valachi, le note informative tra polizia italiana e statunitense.

Segni premonitori dell'inizio del traffico di stupefacenti tra Sicilia e Stati Uniti si erano avuti nel giugno del '49, quando la Guardia di Finanza arrestò a Ciampino l'americano Vincent Charles Trupie, un corriere che portava addosso 9 chili di eroina. Avrebbe dovuto consegnarli a Francesco Pirico, un milanese poi catturato.

Altri "segni": il 6 aprile 1951 all'aeroporto Urbe di Roma la Guardia di Finanza arresta l'americano Frank Callaci con 3 chilogrammi di eroina. Lo stesso giorno a Palermo viene bloccato l'italo americano Francesco Callaci, zio di Frank; nel luglio del '51 il nucleo di polizia tributaria di Roma controlla una serie di ditte farmaceutiche del Nord autorizzate al commercio di stupefacenti. Si scopre che dal '48 al '50 cinque ditte (Alfa di Savona, Lodi di Genova, Gastoldi di Genova, Sace e Saipom di Milano) hanno venduto 716 chili di stupefacenti regolarizzando i propri libri di carico e scarico con documenti falsi. Furono coinvolti nel traffico Salvatore Vitale, "Totò il piccolo" di Partinico fuggito in America, Cristofaro Caruso di Palermo, latitante, Agostino Simoncini e Salvatore Torretta di Palermo. Denunciate, al termine delle indagini, 23 persone, tra le quali Frank Coppola, allora latitante.

Chiusa la "fonte" delle farmacie, la mafia tenta di importare oppio dalla Jugoslavia e dalla Bulgaria e di impiantare in Sicilia un laboratorio clandestino per la sua lavorazione. La squadra mobile di Palermo e il nucleo di polizia tributaria delle "Fiamme Gialle" di Roma nel febbraio del '67 presentarono un dettagliato rapporto contro 91 persone. Ci sono tutti i nomi dei boss del ghota mafioso accanto ad altri meno noti. Al processo ne venne allegato un altro scaturito da un rapporto della sezione narcotici della squadra mobile del 23 febbraio '66 contro Gaetano Badalamenti, Giuseppe Bertolino, Pietro Davì, Elio Forni, Salvatore Greco, Angelo La Barbera, Rosario Mancino, Giacinto Mazzara e Antonino Sorci, tutti accusati come i "91" di "traffici illeciti".

A distanza di dodici anni questi processi sono paradossalmente ancorati alla fase istruttoria, dopo un palleggiamento di competenza tra il tribunale di Roma e quello di Palermo. La magistratura romana ha poi ammesso la competenza dei giudici palermitani. Ma gli atti si sono bloccati all'ufficio istruzione di Palermo in attesa che l'indagine giudiziaria prendesse il via. Naturalmente, a distanza di tanti anni, difficilmente l'inchiesta potrà essere avviata, sia per il gran numero di imputati che per tutte le incombenze formali richieste dalla nuova procedura. Tuttavia l'indagine avrebbe consentito un controllo sulla posizione dei boss della droga e, almeno, avrebbe fornito agli inquirenti una mappa aggiornata dei "gruppi" e dei loro capi. Non se ne è fatto niente.

Si tratta di processi ai quali si giunse tra il '65 e il '67, cioè dopo l'esplosione della "Giulietta-bomba" a Ciaculli e qualche anno dopo i rapporti congiunti di squadra mobile e carabinieri che tra il '63 e il '64, denunciarono prima un gruppo di 33 imputati capeggiati da Angelo La Barbera e, successivamente, altre 54 persone capeggiate da Pietro Torretta.

I due processi, abbinati e celebrati presso la Corte di Assise di Catanzaro si sono conclusi con condanne minime per associazione a delinquere e con l'assoluzione per tutti gli imputati, tranne che per La Barbera e Torretta.

Evidentemente squadra mobile e carabinieri sono venuti a conoscenza delle operazioni e dei controlli eseguiti dalla Guardia di Finanza soltanto a distanza di molti anni. Un gran numero degli imputati nei due processi tenuti a Catanzaro figurano nei rapporti delle Fiamme gialle. Se gli inquirenti avessero potuto leggerli nel '60, probabilmente si sarebbe potuto evitare lo spargimento di sangue provocato dalla lotta tra le cosche.

Si sarebbe dovuto costituire un centro misto di controllo della mafia tra polizia, carabinieri e guardia di finanza. Un centro con uno schedario da aggiornare almeno ogni mese per controllare gli stranieri e gli uomini dalla doppia nazionalità.

Il lavoro in comune fra i tre corpi di polizia avrebbe consentito di avviare il tentativo di disciplinare il settore degli autotrasporti e quello dei portuali, settori di cui spesso si serve la mafia per una vasta gamma di attività illecite. E si sarebbero potute controllare le società che spesso costituiscono soltanto il paravento di personaggi ben mimetizzati dietro una sigla insignificante per riciclare denaro sporco, per speculare, o usufruire delle provvidenze che lo Stato e le regioni dispongono per incentivare iniziative industriali e produttive nelle zone depresse.