Un giorno, rientrando in ufficio dalle ferie, mi si avvicina Lidia e mi dice: «Sai che è successo?». «Immagino di no, sto rientrando oggi. Che è successo?».
«Elena ha dato le dimissioni dall'impiego».
«Si è licenziata?».
«Si, ha già presentato l'istanza di dimissioni».
«E nessuno è riuscita a dissuaderla?».
«Veramente ci abbiamo provato in pochi, ma non siamo riusciti a convincerla».
«Lidia hai la macchina?».
«Sì».
«Bene! Andiamo a prenderla».
Elena è figlia di una delle tante vittime eccellenti di questa città. Da poco aveva perso anche la madre alla quale era legatissima. In un momento di sconforto aveva preso questa decisione, senza capire realmente cosa stesse facendo, perché lo stesse facendo e soprattutto le conseguenze a cui sarebbe andata incontro se lo avesse fatto.
Fortuna volle che fosse in casa. «Ciao Elena, come stai?». «Benino».
«Bella questa casa, è tua?».
«No, è in affitto».
«Ho visto l'auto che hai comprato, bella, in contanti immagino».
«No, la pago a rate».
«La luce la paghi?».
«Certo».
«Mangi ogni tanto?».
«Certo, ma perché mi fai queste domande?».
«Elena, hai trovato un altro lavoro che ti soddisfa di più?».
«No, non ho trovato alcun lavoro».
«Allora come cazzo pensi di campare? Domani tu rientri immediatamente in ufficio, anche se non ti piace, anche se non ti va. E non voglio sentire ragioni. Pensa a quanta gente è disoccupata e pensa soprattutto a tuo padre che come il mio è lassù e ci stanno guardando. Pensi che tuo padre sia contento della scelta che stai facendo? Se oggi hai questo posto lo devi a lui, non dimenticarlo, ti piaccia o no. Sei poi trovi qualcosa di meglio sei libera ti licenziarti, ma adesso, cazzo, no».
«Ma ho già fatto l'istanza».
«L'ho già strappata. A domani allora. Alle otto in punto ti aspetto giù e se non ti vediamo, io e Lidia ti veniamo a prendere con la forza».
Ritornando con l'auto in ufficio Lidia ed io eravamo contenti per averci provato, ma nello stesso tempo un po' preoccupati e perplessi: «E se domani non viene?». Arrivato in ufficio ho chiesto ai colleghi del personale di pazientare un pochino con la pratica di dimissioni di Elena, spiegando loro che quasi sicuramente ci aveva ripensato.
Elena l'indomani fu puntuale. Erano le otto quando la vidi arrivare. Elena, come me, fa parte di quella schiera di "fortunati" (almeno così ci considerano in tanti), che hanno avuto un posto di lavoro presso una pubblica amministrazione in qualità di orfani di vittime della mafia. «Categoria fortunata». Sì, perché per entrare non abbiamo fatto nessun concorso, ma siamo stati assunti attraverso una legge nazionale. C'è da chiedersi allora: quanti hanno fatto un concorso alla Regione? E quei pochi che lo hanno fatto, non si sono rivolti proprio a nessuno? Neanche per un piccolo aiutino?
Lidia, dopo qualche mese, non rientrò più in ufficio e nemmeno a casa.
È andata in cielo: un angelo, forse, l'ha voluta con sé.
Ricordo bene le tue mani bellissime e i tuoi occhi scuri pieni di bontà........
Nella mia vita non ho soltanto cazzeggiato, qualcosa di serio l'ho fatta anch'io.
Ho scritto e ho scritto di mafia.
Mio padre è stato un grande giornalista investigativo. Scriveva soprattutto di mafia. Per questo lo hanno ucciso: ventidue anni fa. Che fosse il migliore lo dice un'inchiesta giudiziaria, sfociata poi in un processo. Sette le condanne.
Anch'io ho scritto qualcosa, perché lo faccio? dato che nella vita il mio lavoro è tutt'altro? Boh! Forse soltanto sete di verità. Così qualche inchiesta l'ho fatta anch'io. In periodici poco conosciuti ma in cui ero libero di scrivere quello che volevo e l'ho fatto, credo di averlo fatto, bene.
Sono stato felice nello scrivere e ricordare un giornalista trovato morto sui binari ben quarant'anni fa. Non sopportavo la tesi ufficiale del suicidio. La mia: omicidio, senza alcun dubbio. L'ho scritto nel 1998. Oggi qualcuno ha chiesto timidamente la riapertura delle indagini. Cosimo (così si chiamava) è stato iscritto alla memoria all'albo dei giornalisti e in ultimo è stato ricordato nel suo paese natìo, con l'intestazione di una piazza. I suoi familiari continuano a ringraziarmi.
Così anche per un avvocato vice pretore, ucciso a Corleone e posteggiato per ventidue anni. E l'ho scritto. Stavolta anche in un quotidiano più prestigioso: l'inchiesta è stata riaperta. Speriamo bene! Speriamo che anche Ugo possa avere finalmente giustizia.
Ho riletto molte verità ufficiali. Ma ai miei occhi, occhi da ingenuo forse, o forse soltanto occhi di un povero stupido, sono verità che non mi convincono. E non mi convinco. Questa è la terra dei misteri: dall'arrivo del Prefetto Mori, allo sbarco degli americani in Sicilia, alle clamorose gesta del bandito Giuliano, alla strage di Portella delle Ginestre, all'uccisione di Giuliano, al tentato golpe Borghese, all'omicidio del colonnello Russo, ai grandi omicidi eccellenti degli anni '79, '80, '81 e seguenti, (che poi non è altro che il golpe dei 'corleonesi'), alla misteriosa comparsa di Sindona in Sicilia, alla seconda guerra di mafia, alle grandi stragi, Ustica compresa, quale è la verità? E quante sono le verità?
A volte mi pare di assistere ad un vero e proprio gioco delle parti. A volte mi sembra che la verità sia come un immenso puzzle infinito, ogni tanto incastoni un pezzo e cerchi l'altro per andare avanti. Ma il puzzle è infinito, e nonostante tutto l'impegno possibile, non sarà mai completato. Nonostante gli sforzi, i sacrifici di tutti quei morti, ammazzati per aver compiuto fino in fondo il proprio dovere: non sapremo mai tutta la verità.
A Natale mi hai portato una lettera, scrivevi a me, ma parlavi con papà. Ogni cosa che facevi era dedicata a lui. Adesso tocca a me parlare di te, raccontarti ai tuoi amici e a chi ti ha voluto bene. Ma mi "costringi" a usare il tuo stile e a parlare con te. E chissà, a far parlare te direttamente con chi sfoglierà questo volumetto. Che è stata una "fatica tua". In poche parole, la tua vita. Raccontata da te medesimo, con la tua solita ironia velata di tristezza. Pagine di speranza. «Io speriamo che me la cavo» avresti detto per il gusto della battuta. E chiudevi con l'incontro con Jack, il tuo bel cane trovatello. Un incontro fra due solitudini per cominciare un nuovo cammino. «E con i miei occhi e con i suoi occhi - assicuravi - nonostante tutto, io e Jack andremo avanti e vi giuro che ce la faremo».
Purtroppo non è andata così. Adesso con i miei occhi mi costringi a guardare i tuoi occhi, a prendere una tua foto e poi una di papà: vi somigliate tanto, stessi occhi neri profondi, intensi, luminosi. «Ricordo i tuoi occhi scuri pieni di bontà», hai scritto di lui. Sì, questa somiglianza l'avevi notata pure tu, che di papà hai pazientemente raccolto tutto, le foto, gli articoli. E' stato il tuo modo di abbracciarlo: te lo hanno strappato via troppo presto. E' stato il tuo faro. Lo hai pure scritto: «Avevo quegli occhioni scuri quando bruscamente sei andato via. Ho ancora gli stessi occhi e con loro continuo a percorrere le impervie strade della vita. Senza di te, ma con te. Perché mi hai lasciato quella indelebile impronta. E così, con te dentro me, continuo a vivere mentre mi incontro e mi scontro con la vita».
È stato breve il tuo cammino. Guardo la tua foto e nei tuoi occhi che ci hanno regalato tanti sorrisi vedo adesso un'ombra di tristezza, di malinconia che in passato non ho saputo cogliere. Eri fragile ma ai nostri occhi ti sei sforzato di apparire sicuro. Dentro di te ferite profonde hanno continuato a sanguinare. Rabbia, dolore, solitudine e una grande sete di giustizia ti hanno lentamente corroso nell'anima, ma agli altri hai riservato sempre il meglio di te: le battute, l'allegria, l'impertinenza della tua età. Eri sempre pronto a tendere una mano, a correre al fianco di chi aveva bisogno, a consolare, a sostenere, a "battagliare" per le cause giuste, a sfidare i pericoli.
Solo a dicembre scorso hai avuto un attimo di debolezza. Hai tolto la corazza e mostrato la tua vulnerabilità, spiazzandoci. Per un attimo il "guerriero" è tornato il bambino con gli occhioni neri spauriti. E ha cominciato a guardarsi dentro per mettersi bene a fuoco, e ha cominciato a scrivere «Con i miei occhi», una «camera con vista» sulla sua vita. Ricordo quando ci hai portato a Natale questo volumetto: ci hai offerto te stesso, senza pudori. E non potrò dimenticare le risate che ci siamo fatti perché anche nelle situazioni più allucinanti sapevi trovare il lato comico. Volevi continuare a scrivere di altre "avventure", fare un corso di scrittura creativa, vivere. «Ho capito che nonostante tutto la vita è bella, forse per stare bene bisogna prenderla un po' meno sul serio, come ci hanno insegnato Totò e Peppino».
Non ce l'hai fatta. Forse ti sei messo solo in viaggio verso un'altra vita. Forse sei voluto andare a cercare papà. Non trovo la risposta. Solo le tue parole, scritte in queste tue memorie-testamento: «Non so se quello che faccio è giusto o no. E dov'è scritto cosa è il giusto e cosa non lo è. Io sono fatto così».
Addio Peppino, fratello mio. Vorrei sentirmi in questo momento come Totò e regalarti una battuta per portarti un sorriso lassù, ma non ne sono capace. Era la tua specialità. E con questo libro in cui ci offri il tuo cuore, ne sono sicuro, continuerai a farci sorridere.
Tuo fratello Giulio
Mio nonno materno ha sempre vissuto in casa con noi. Io ero molto legato a lui e porto il suo nome, fu lui a battezzarmi. Era imbattibile con le carte siciliane: mi insegnò lui a giocare. Un giorno, alla veneranda età di 89 anni, quando io cominciavo già a pensare che fosse immortale, si ammalò improvvisamente e dopo un mese morì. Soffrii immensamente per la sua malattia e per la sua morte. Per me era come se fosse morto il mio secondo padre. Per seppellirlo lo portammo al suo paese natìo. Poiché le tombe antiche erano più corte rispetto alle casse modeme, dovettero in fretta e furia modificare la tomba di famiglia. La mia famiglia aveva già preso accordi telefonici con un muratore o un becchino del posto, che ancora oggi non ho capito che mestiere facesse questo genio. Arrivati sul luogo, afflitti per la perdita, trovammo la tomba non ancora definita: non fu possibile seppellire il nonno. Fu posto nella camera ardente nell'attesa che la tomba fosse completata. «Signor lei, veda che quando avrà terminato di costruire la tomba, non deve seppellire mio nonno, anche perché come lei ben saprà, la presenza almeno di un familiare, in questa circostanza, è obbligatoria».
Ricevemmo la telefonata: tutto era pronto. Io ed i miei familiari ci recammo subito in paese, ma con nostra enorme meraviglia, il becchino-scienziato aveva non soltanto seppellito mio nonno, ma lo aveva addirittura murato con il cemento armato, nella base della tomba. Così, a suo dire, con sua enorme scienza, era riuscito a recuperare altri due posti. Naturalmente m'incazzai parecchio, sia perché non ci aveva atteso per la sepoltura, che però venne fatta davanti ad un parente, pertanto ai sensi di legge, ma anche perché mio nonno era stato "murato". Proposi allora immediatamente di tirarlo fuori da lì, ma la cosa era alquanto difficoltosa, trattandosi di cemento armato: si sarebbe dovuto intervenire almeno con i martelli pneumatici e per più giorni. Ma c'è di più. "Mister scienza" ad un certo punto, mentre io mi sentivo più confuso che persuaso, mi si avvicina e mi dà un sacchetto di plastica nero, quello che si usa per buttare l'immondizia. Prendo il sacchetto e guardo il suo contenuto, senza ancora rendermi conto di cosa ci fosse dentro. «Mi scusi, ma cosa c'è dentro?».
E lo scienziato risponde: «Questa è tua nonna».
«Minchia», risposi io. «E che ci fa qua dentro?».
Nel ricostruire la tomba, il becchino-scienziato, vedendo che la cassa che conteneva le reliquie di mia nonna (moglie del nonno appena morto) si era ormai infradicita dato il lungo tempo trascorso, aveva pensato bene, e senza avvertire nessuno, di spurgarla, ossia togliere dalla cassa le sue povere ossa e farcele trovare in un sacchetto. Fortunatamente mia madre che era già addolorata dalla morte del padre non capì nulla. Se solo avesse visto quel giomo il contenuto del sacchetto credo che sarebbe morta di crepacuore pure lei.
Mi avvicinai molto incazzato allo scienziato e gli chiesi: «Adesso che cazzo ci faccio con questo sacchetto?».
«Ma lei doveva portare una piccola urna di legno che contiene le ossa».
«Ma se lei non mi ha nemmeno avvisato che ha tolto le ossa di mia nonna dalla tomba, come cazzo facevo io soltanto ad immaginare di portare la cassa?».
«Vabbè, non si preoccupi, metta il sacchetto dietro il portabagagli della sua automobile, vada a Palermo, lì compra una cassetta, ci fa infilare sua nonna e poi la riporta qui".
Lo guardavo stralunato e pensavo: «Questo è completamente rincoglionito».
«Quindi secondo lei, io dovrei fare così?».
«Certo, è l'unica soluzione».
«Scusi, e se mi dovesse fermare, così per caso, una pattuglia dei carabinieri, io cosa devo dire, che è stato lei a consigliarmi questa brillante idea?». Quello sbiancò, forse per la prima volta aveva intuito la cazzata che aveva commesso, forse aveva anche intuito che, incazzato come ero, avrei potuto chiamare i carabinieri del luogo e fargli fare la festa. Mi chiese scusa. Ero talmente addolorato per la morte di mio nonno e confuso per il casino che aveva combinato lo scienziatone che sinceramente non me la sentii di fargli passare un guaio, anche perché capii sinceramente che questo era scemo davvero. Allora lo pregai, giusto per chiudere la cosa in fretta, visto che mia madre ancora non si era fortunatamente accorta di nulla, di infilare immediatamente quel sacchetto nell'ossaia. Una vicenda triste, drammatica e paradossale. Ma bisogna vedere anche il lato positivo delle cose: avevo visto mia nonna.Io che non l'avevo mai conosciuta in vita, riuscii a vedere il suo viso (o meglio il suo teschio) che parve sorridermi. Devo confessare che non mi fece nessuna brutta impressione: in fondo era pur sempre mia nonna.
Ho regalato a don Vittorio una calcolatrice-convertitrice euro. Si perché ho capito che in questi giorni, che sono gli ultimi dell'anno 2001, lui è preso di panico. Ma voi lo immaginate un povero Cristo di anni 81 che ad un certo punto della sua vita, proprio quando pensava ad una vecchiaia serena, all'improvviso, boom, gli spunta l'euro. Lui, don Vittorio, che riesce perfettamente a tenere i conti del condominio, anche se ha la terza elementare (come tiene a sottolineare) in preda all'euro. Ebbene io l'ho visto, e vi assicuro che non è stato uno spettacolo piacevole. Ed è per questo che mi sono premurato di comprargli un euro-convertitore: per paura che ci restasse secco. Vi immaginate, morto non di cirrosi, o per un incidente, o a causa del carbonchio (come è di moda oggi): assolutamente no! Poteva morire trafitto dall'euro. Adesso è un po' più tranquillo. Gli ho spiegato come funziona, più o meno, e gli ho detto di non fare assegni e che quando e se dovrà farne prima deve chiamare me. Capite, prima deve chiamare me che, in quanto ad assegni in euro ne so meno di lui. Gli ho anche regalato una busta di spiccioli in euro, così può cominciare ad allenarsi a fare i primi conti: «Don Vittorio, mi raccomando, stia attento alle virgole».
Lui, che se gli fai un regalo non se ne tiene una (come si usa dire dalle nostre parti) mi ha fatto trovare, dietro la porta di casa, due bottiglie di ottimo vino prodotte nel suo paese. Un vino eccellente. Io che mi emoziono quando ricevo regali, (scusate ma sono fatto così), quando l'ho visto gli ho detto: «Don Vittorio, io la ringrazio ma se continua a farmi regali le prometto che per sdebitarmi le compro una grossa scatola di pillole di Viagra che costano un sacco di soldi».
«Senta caro mio, veda dove deve andare, perché una cosa è certa, prima che muore lui - indicandomelo con la mano - è sicuro che muoio io».
Mi trovavo seduto sul sedile anteriore della vecchia auto di mio padre. Un mio fratello seduto dietro. Mio padre ci stava portando nella casetta che avevamo in affitto ad Aspra. La casa aveva un grande giardino, direi un vero e proprio terreno di campagna. Quella casa e quel grande giardino sembravano una specie di mini, che poi tanto mini non era, zoo. Papà ci teneva di tutto. Cani, gatti, capretta, galline, uccelli, conigli, ecc...
Quella mattina di primavera stavamo andando lì per dare il cibo a tutti gli animali. Arrivati a Ficarazzi, mio padre svolta a sinistra, e procede per una traversina che arrivava al lungomare. Ad un certo punto, da questa strada stretta, dalla parte anteriore di un camion posteggiato sbuca improvvisamente una bambina con una bicicletta. Mio padre con un gesto fulmineo e istintivo riuscì appena in tempo ad arrestare l'auto. La bambina, tranquilla come una pasqua, stava proseguendo la sua passeggiata, quando papà, apre il finestrino e le dice: «E se ti investivo? Devi stare più attenta con la bici quando vai per la strada».
La bambina con aria inebetita lo guarda e gli risponde: «Ma io aspittava (ma io ho aspettato)». Basta, mio padre mette la marcia e riparte. Qualche minuto dopo, scoppio a ridere. Preciso che quando ero piccolo avevo una risata che non riuscivo più a frenare ma aveva anche una peculiarità: era contagiosissima. Cosicché sia mio padre che mio fratello scoppiarono in una solenne risata da contagio senza capire in realtà perchè stessero ridendo. E più me lo chiedevano, più io ridevo e non riuscivo a prendere fiato per spiegarlo. Intanto tra le risate generali, l'auto proseguiva la sua corsa verso casa. Io seguitavo a ridere: loro appresso a me. Finalmente, quando arrivammo quasi a casa, riuscii a parlare: «Ma che cazzo stava aspettando la bambina, di morire?». Già perché se vogliamo proprio leggere nelle parole e soprattutto nelle intenzioni della bambina, sembrerebbe che si fosse nascosta dietro il camion e che stesse aspettando la prima auto per farsi schiacciare. «Io aspittava!», aveva risposto a mio padre. Ma aspettava che? La morte? Fortunatamente tutto andò liscio, grazie soprattutto ai riflessi di mio padre. Sono passati tanti anni ma quando, ogni tanto, ripenso a questo episodio, mi scappa ancora un sorriso.
Io vivo da solo. Vivere da solo ha indubbiamente i suoi vantaggi. a volte no. Come quella gelida notte di febbraio. Ero ben accucciato sotto due coperte ed un piumone, quando all'improvviso:"ahiii!". Sento una fitta insopportabile al fianco destro. E più passava il tempo più il dolore aumentava.
«Che cazzo sarà mai, ho qui ho un'appendicite oppure ho le doglie».
Così con la forza della disperazione mi sono vestito da spaventapasseri, e con la macchina sono andato verso il pronto soccorso. Erano le 2,50 circa, di notte si capisce. Vicino casa mia c'è un ospedale: ma io no, in quello più lontano volevo andare, me ne hanno parlato tutti meglio. E mentre santiavo per il dolore, la mia auto mi conduceva all'ospedale più lontano.
Ero quasi arrivato quando pensai: «Minchia, e se mi ricoverano per operarmi, quella santa donna di mia madre, che ci ha pure la sua età, come viene e trovarmi? Come minimo deve prendere due autobus». E a Palermo se non prendi gli autobus che vanno nel salotto buono della città, ma quelli che vanno in periferia, ti perdi. Ed io non volevo perdere mia madre. Allora sempre santiando, faccio marcia indietro e mi dirigo all'ospedale, quello più vicino, quello che tutti me ne parlano male, ma io a mia madre negli autobus per la periferia non ce la mando. Dovessi crepare.
Finalmente arrivo al pronto soccorso, tutto chiuso. Comincio a suonare il campanello come un folle. Fin quando, uno con il camice bianco, che non si capisce se era medico o infermiere, mi apre la porta. Io ero piegato dal dolore. «Mettete questo qui nel lettino e fategli una flebo: ha una colica renale». Minchia e come lo ha capito: forse ce l'avevo scritto nella faccia smorfiata dal dolore. Mi mettono in un lettino; prendono il mio portafoglio e il mio cellulare: «Tenga signora». E li danno tranquillamente ad una signora che si trovava lì per i cazzi suoi.
Io li guardavo stralunato: «Scusate ma il portafoglio e il cellulare sono miei».
«Ma perché la signora non è con lei?».
«E no!».
«Signora ci scusi, ci ridia il portafoglio ed il cellulare. Ma allora lei é venuto da solo?».
«E già!».
Mentre stavo disteso sul lettino con una flebo infilata nel braccio, tremavo come una foglia: avevano lasciato dietro le mie spalle una finestra aperta.
Stavo morendo oltre che dal dolore anche dal freddo. «0 qui muoio per sto dolore, o di broncopolmonite». Intanto ero rimasto solo, perché il medico si era allontanato.
Finita la prima flebo non veniva nessuno. Ho piegato il metallo che sta lungo il tubicino della flebo e ho cominciato a chiamare il dottore: «Sente ancora dolore?».
«Sì, dottore».
E via con un'altra flebo, poi delle iniezioni attraverso la flebo e poi: «Apra la bocca» e giù una dozzina di gocce sotto la lingua. E di nuovo via. Continuavo a sentire freddo. Da quella finestra entrava un venticello gelido. Ma non avevo avuto nemmeno il tempo di chiedere la cortesia al medico di chiudere la finestra. Finita anche la seconda flebo chiamo il medico. «Come va?».
«Come prima dottore». E giù la terza flebo, iniezioni, gocce e via. «Cazzo, se n'è andato di nuovo. E la finestra?».
Alla quarta flebo, quando stava per rimettermi le gocce sotto la lingua, che fino ad allora non avevo detto niente perché erano buone, al sapore di fragola, gli ho chiesto: «Scusi ma queste gocce a che servono?».
«Sono dei tranquillanti».
«Perché dei tranquillanti? Non sono mica nervoso».
«Ma se trema come una foglia».
«Guardi dottore che se forse chiude la finestra, le prometto che non tremo più. Anzi la prego di avvicinarmi il mio giubbotto. Grazie».
In effetti con il giubbotto di sopra e la finestra chiusa non ho tremato più. Dopo la quinta flebo, la sesta iniezione e le quaranta gocce circa, non accusando più dolori sul fianco mi hanno dimesso. Appena uscito che erano le 3,45 e non si vedeva una mazza, sento una voce chiamarmi: «Signore, signore, per favore».
«Mi dica».
Era un uomo sulla sessantina e forse più, in pigiama: «Per favore, potrebbe accompagnarmi a casa? Mi hanno dimesso».
«Mi scusi, ma lei come c'è venuto in ospedale, da solo?».
«Perché lei come c'è venuto, accompagnato?».
«Già!».
«In realtà mi hanno dimesso da circa un'ora, ho telefonato ad un amico, ma ancora non si è visto nessuno. Per favore mi accompagni lei».
Io che ero ancora rincoglionito dalle gocce, ed avevo il fianco indolenzito gli ho detto «Bene, andiamo. Dove abita?».
«Allo Zen 2, sa dov'è?».
«Più o meno, ma faccia strada lei».
Il tizio cominciò a farmi fare strade scognite che io non conoscevo proprio. Mi sembrava di vivere in diretta una scena del film «incontri ravvicinati del terzo tipo»; quando quelli con l'automobile cominciano a perdersi per le strade e cominciano ad avere paura.
Siamo approdati in una zona di case mezze diroccate: una lunga fila di cubi rosa, tutti uguali, che ad una prima occhiata parevano casermette deserte dopo un attacco via terra dei marines.
Attorno buio pesto: «Per favore mi accompagni dentro casa che da solo non ce la faccio».
Intanto notavo che a circa trenta metri da noi c'erano due uomini che parlottavano tra loro, fuori da una utilitaria color bianco, uno da un lato dello sportello, uno dall'altro. Ebbi paura, pensai ad un'imboscata.
«Se qui mi acchiappano posso urlare come un agnello portato al macello, ma chi mi aiuta?».
Intanto il vecchietto insisteva ed io non sapevo che fare: me lo misi a braccetto e cominciai a pregare in silenzio.
«Tanto, se muoio adesso sono a posto perché sto facendo una buona azione». Giunsi ad un portone: tutto intorno buio, buissimo.
«Ecco siamo arrivati, mi aiuti ad entrare per favore».
C'era qualche gradino. Così con un braccio sollevavo il vecchietto mentre con un occhio guardavo in direzione dei due uomini, che ad un certo punto non vidi più. «Cazzo, ora mi arriva una botta in testa», e già stringevo i denti nell'attesa. Finalmente il vecchietto entrò in casa, e a me nessuna botta. Mi è andata bene. Ho salutato il vecchietto che mi ha tanto ringraziato. Cercavo tra un dedalo di viuzze la strada del ritorno verso casa. Mi ero infilato in una specie di labirinto dal quale non riuscivo più ad uscire ed inoltre temevo di rincontrare l'utilitaria bianca. Poi finalmente ho ritrovato la strada giusta.
Ogni tanto ripenso a quella notte, a quel vecchietto e alle nostre solitudini.