22 aprile 1979

 

Militari e magistrati, due modi di vedere

Mentre polizia e carabinieri tentavano di individuare le prigioni del prof. Nicola Campisi e dell'esattore Luigi Corleo si accertò che nelle province di Palermo e Trapani si era costituito un clan che aveva in programma una serie di sequestri. Era stata selezionata una rosa di nomi che, oltre a Campisi e Corleo, comprendeva Antonino Fiore nato a Castelvetrano nel 1920 e residente a Menfi, commerciante di tessuti, Andrea Palermo di Partanna residente a Menfi, notaio, Diego Planeta residente a Menfi, possidente e presidente della cantina sociale "Sottesoli" di Menfi.

Da non dimenticare che in quel periodo la mafia aveva subito dei consistenti contraccolpi. In Canada era stato arrestato un fratello del capomafia di Salemi, Salvatore Zizzo, perché trovato in possesso di una grossa partita di droga. A Cittadella si trovò un altro quantitativo di droga nelle mani di Giuseppe Palmeri di Santa Ninfa, socio dello Zizzo.

A Palermo gran parte dei contrabbandieri di sigarette erano stati allontanati dalla città ovvero arrestati in seguito allo scandalo del furto dei 15 MAB nella caserma di Torre del Corsaro. Nei pressi di Roma le forze di polizia sequestrarono in un grande magazzino di Fernando Lena, noto col nome di "Nando", macchinari tipografici per la stampa di falsi traveller cheques. In un angolo fu trovata carta speciale stampata per oltre tre milioni di dollari statunitensi in traveller cheques della Bank of America.

In crisi anche il settore della sofisticazione del vino dopo le operazioni di polizia con cui si scoprì una organizzazione che comprendeva pure il boss di Bagheria, Tommaso Scaduto, riuscito a fuggire dal soggiorno obbligato dell'Asinara.

In crisi anche il vertice della mafia per gli arresti di Luciano Liggio a Milano, di padre Agostino Coppola e dei suoi fratelli a Partitico, di Gerlando Alberti a Napoli.

Si tratta di consistenti contraccolpi che provocano un certo sbandamento nell'"organizzazione" e la ricerca di quattrini da parte di tanti gregari.

Si giunge così alla costituzione di quel clan che è praticamente una nuova "Anonima sequestri" siciliana, a capo della quale secondo voci confidenziali si sarebbe trovato Vito Cordio, 42 anni, figlioccio di Salvatore Zizzo e capo della famiglia mafiosa di Santa Ninfa.

Si tratta di confidenze che si ebbero dopo l'arresto del boss di Partanna (Trapani), Stefano Accardo, un personaggio di primo piano in materia di sequestri, appalti e subappalti nella Valle del Belice, e – quel che più conta – nelle vicende della diga di Garcia. Un aspetto sul quale torneremo.

Subito dopo il sequestro di Luigi Corleo, Accardo fu arrestato perché trovato in possesso di una pistola. Non fu però condannato perché in suo favore testimoniò il maresciallo dei carabinieri Guazzelli, braccio destro del colonnello Russo nel Trapanese. Ci si chiede quale sia stato il prezzo pagato da Accardo per quella testimonianza che gli consentì di tornare libero.

Al quesito non c'è risposta. E' certo che, dopo la scarcerazione di Accardo, scomparve misteriosamente il boss di Santa Ninfa Vito Cordio, l'anima dell'"Anonima sequestri". Ed è anche certo che Accardo in quel periodo si incontrò spesso con il colonnello Russo. Si dice che Corleo sia morto di fame e di sete subito dopo la scomparsa di Vito Cordio perché, dopo la fine del capo, nessun componente del clan avrebbe rifornito di viveri il prigioniero. E' una voce non controllabile che riferiamo per completezza.

I rapporti tra Vito Cordio e Stefano Accardo avevano fatto registrare nell'ultimo decennio profonde spaccature. Cordio aveva cercato di imporre nella zona del Belice la legge del suo gruppo. E si accertò poi che la nuova "anonima sequestri" era composta da "famiglie" di Trapani, Agrigento e Palermo coordinate da Vito Cordio che aveva ottenuto lo "sta bene" della mafia contraria, però, al sequestro Corleo. A questo sequestro la mafia aveva detto "no". Lapidaria, ma anche storica, l'espressione attribuita a Vito Cordio: "A me hanno detto di no per Corleo, ma si sa che loro lo fanno lo stesso".

E di Cordio, probabilmente ritenuto incapace di garantire gli equilibri e l'ordine nella zona, si perdono le tracce.

Proprio nel periodo dei sequestri Corleo e Campisi, un gruppo di forestieri viene ospitato a Menfi nella baracca di un cantiere edile dell'impresa Paralisi. Li ospita Gaspare Biundo, di Partanna, che spesso accompagna gli amici al ristorante "La Fattoria" di Monreale di Settimo Failla.

Le indagini del colonnello Russo portano all'identificazione dei "forestieri". Sono gli evasi Dante Anzi di Roma e Pasquale Bianchini di Albano Laziale: un terzo sarebbe Giorgio Graziani soprannominato "dracula" abitante a Roma in via Genoano 194, dove, nel corso di una perquisizione, vengono trovati due assegni della Banca agricola commerciale di Reggio Emilia, agenzia città Valle Ospizio, entrambi emessi sul conto corrente di Girolamo Scaglione, nato ad Alcamo nel '45 e residente a Reggio Emilia. Sono assegni da uno e due milioni. Si indaga così per scoprire i collegamenti fra "dracula" e Scaglione il quale aveva ospitato alcuni ricercati, compreso Pasquale Bianchini detto "Castrici" e i suoi compaesani Giuseppe Ferro e Giuseppe Renda, ricercati per i sequestri Campisi e Corleo.

Scaglione e il francese

Scaglione in quel periodo conviveva con Marie Pierre Monito, francese che aveva depositato nel '75 diciotto milioni in una banca di Cavirago (Reggio Emilia). Saltarono fuori i rapporti di amicizia di Scaglione con Pietro Salerno, un mediatore di bestiame originario di Pacco (Trapani) dov'era nato nel 1917, che si costruì una villa del valore di cento milioni.

Una svolta nelle indagini si ebbe comunque con il rilascio del professor Nicola Campisi liberato all'alba dell'11 agosto 1975 dopo il pagamento di un riscatto di 700 milioni. La prigionia era durata 41 giorni.

Campisi fu lasciato dai banditi intorno alle 2,30 del mattino alle porte di Sancipirello. Una pattuglia dei carabinieri sorprese una lambretta che procedeva a fari spenti con due uomini a bordo che, vedendo i militari, tentarono invano la fuga. Mentre i carabinieri stavano controllando i documenti, uno dei fermati, poi identificato per Giuseppe Renda di Alcamo, riuscì a fuggire. L'altro, portato alla caserma di Sancipirello, era Giuseppe Filippi, anch'egli di Alcamo.

Secondo le prime testimonianze del professor Nicola Campisi, lo avrebbero accompagnato alle porte del paese due uomini proprio su una lambretta.

L'interrogatorio di Filippi si protrasse a lungo. Passò da una versione all'altra. Disse prima di trovarsi vicino a Sancipirello per comprare della paglia insieme a Giuseppe Renda. Poi sostenne di essere stato fermato da alcuni uomini incappucciati che gli ordinarono di accompagnare il professor Campisi in paese e di averlo fatto soltanto per paura. Ammise, infine, la sua partecipazione al sequestro affermando di essere disponibile per fare recuperare il bottino, nascosto in un casolare di campagna sotto alcune balle di paglia.

Le dichiarazioni di Filippi non furono verbalizzate perché forse i carabinieri avrebbero voluto farlo confessare davanti al sostituto procuratore della Repubblica, Vincenzo Geraci, che conduceva le indagini.

La stessa sera dell'11 agosto, Filippi fu accompagnato in contrada Montagnola di Camporeale. In un casolare di proprietà di Giuseppe Renda, probabilmente la prigione di Campisi. E la mattina del 12 agosto Filippi condusse il colonnello Russo, il maresciallo Scibilia ed altri carabinieri in un suo deposito di paglia, in contrada Canapè, fra Alcamo e Camporeale.

Lì – disse – avrebbero trovato il riscatto nascosto in mezzo alle balle di paglia. Una volta dentro il magazzino, Filippi chiese che gli fossero tolte le manette. Il colonnello Russo si guardò intorno, vide che c'era soltanto una piccola finestra sbarrata da una grata di ferro, e consentì.

Ma, appena libero, Filippi si inerpicò sulla catasta di balle che toccava quasi il tetto, con un colpo di testa fece saltare alcune tegole e fuggì lasciando di stucco i carabinieri che lo riacciuffarono soltanto otto giorni dopo in casa di una sorella ad Alcamo.

Un elemento al quale si diede una grande importanza fu il ritrovamento nel casolare di campagna di Giuseppe Renda dei frammenti di una busta arancione. Ricostruiti, misero in evidenza una scritta: "Ugo Testoni – Sciacca". Il professor Nicola Campisi dilettere con busta arancione indirizzate allo zio Ugo ne scrisse due. Ma a Testoni una delle due lettere giunse dentro una busta aerea con l'indirizzo scritto con un normografo. Da qui la convinzione che i banditi, prima di recapitarla, ne aprirono una e sostituirono la busta. D'altronde lo stesso Campisi riconobbe come sua la grafia dei frammenti di busta arancione trovati nel casolare di Renda. In sede giudiziaria, sulla validità di questa "prova" si è scatenata una schermaglia destinata a far saltare a tempo indeterminato il processo per il sequestro Campisi. Chiese la perizia tecnica e grafica il difensore di Renda, l'avvocato Paolo Seminara.

Un tassello dopo l'altro

I carabinieri un tassello dopo l'altro tentavano di ricostruire il mosaico. Ecco altri elementi ritenuti importanti. L'otto agosto 1975, quaranta minuti dopo mezzanotte, una pattuglia dei carabinieri bloccò sulla strada Montelongo il pregiudicato Giuseppe Ferro di Alcamo. Proprio in quella zona era passato quella sera il padre di Nicola Campisi che avrebbe dovuto consegnare i 700 milioni di riscatto ai banditi, secondo le indicazioni ricevute. Ma l'avvocato Renzo Campisi non incontrò nessuno.

Giuseppe Ferro raccontò ai militari che stava tornando da un suo podere in contrada Pigno e fu rilasciato. Ma i carabinieri non lo persero di vista e, il giorno dopo, lo scoprirono mentre telefonava dal bar Vacano di Alcamo Marina in casa Campisi a Sciacca. Non lo arrestarono subito. Decisero di farlo due giorni dopo quando Ferro era già sparito. La sua presenza, insieme a quella di Renda, sarà poi segnalata a Reggio Emilia in casa di Scaglione e di Salerno.

Al termine delle indagini per il sequestro Campisi i carabinieri denunciarono 20 persone di cui due identificate soltanto con i soprannomi. Di queste ne furono arrestate otto. Ventidue le persone denunciate invece per il sequestro Campisi.

I due processi comunque si dividono non ravvisando né la procura della Repubblica di Marsala, né quella di Palermo, elementi di connessione. Il fascicolo su Luigi Corleo finisce così a Marsala e quello su Nicola Campisi a Palermo.

Un mese dopo la stesura dei rapporti di denuncia si scatena nel palermitano e nel trapanese una guerra spietata fra le cosche implicate nei due sequestri. E' una diretta conseguenza dei primi provvedimenti adottati dalla magistratura di Palermo. Il riferimento corre agli ordini di cattura emessi dal sostituto procuratore Vincenzo Geraci nei confronti di Giuseppe Ferro, Giuseppe Filippi, Giuseppe Renda. Tutti gli altri denunciati dai carabinieri hanno così via libera. Questo tra la fine del '75 e l'inizio del '76.

Dal canto suo, la procura della Repubblica di Marsala il 2 febbraio '76 emette ordini di cattura per associazione a delinquere contro Giovanni Lala, Nicolò Mangiaracina, Silvestro Messina, Angelo Caravà, Gregorio Gulli, Girolamo Scaglione, Salvatore Secolonovo, Mario Stella, Gaspare Biundo, Natale Lala, Leonardo Messina, Antonino Genco, Baldassare Nastasi, Andrea Terranova, Giuseppe Zummo, Silvestro Leopardi, Vittorio Carpino, Giorgio Graziani. Colpiti dai mandati di cattura, inoltre, Vito Gondola, Vito Cordio (scomparso), Antonino Messina, Salvatore Invoglia e Paolo Saladino.

Una selezione

Al termine della prima fase istruttoria si ha però una selezione con la scarcerazione "per mancanza di indizi" di Gregorio Gulli, Girolamo Scaglione, Gaspare Biundo, Natale Lala, Leonardo Messina, Antonino Genco, Andrea Terranova, Giuseppe Zummo, Silvestro Leopardi, Vittorio Carpino e Giorgio Graziani.

Comincia nei giorni in cui questi ultimi tornano in libertà la "guerra" tra le due cosche.

E' il 27 febbraio 1976. In un ristorante di Mazara del Vallo c'è un banchetto. Presenti l'imprenditore di Montevago Rosario Cascio, il suo protettore Stefano Accardo di Partanna, l'ingegner Ero Bolzoni direttore per conto della Lodigiani dei lavori di costruzione della diga Garcia e il geometra Paolo Lombardino, imprenditore edile anch'egli.

Rosario Cascio festeggia così il contratto stipulato con la Lodigiani per costruire il cantiere-operai per la diga e per realizzare la galleria destinata a deviare, fino al termine dei lavori, il corso del fiume Belice. E' un banchetto di cui bisognerà ricordarsi, come punto di partenza, nelle indagini per l'omicidio a Ficuzza del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.