15 aprile 1979

 

Quel filo che collega quei tre sequestri

La legge con cui sono stati espropriati gli 820 ettari di terreno per la costruzione della gigantesca diga "Garcia" ha previsto una spesa di 17 miliardi da dividere tra i proprietari che quelle terre, pochissimi anni prima, avevano acquistato complessivamente per meno di due miliardi.

Ogni ettaro di terreno coltivato a vigneto è stato pagato 13 milioni. Cifra raddoppiata nel caso che il proprietario fosse iscritto nell'elenco dei coltivatori diretti. Altri benefici sono stati previsti per mezzadri, coloni, affittuari, compartecipi ed usufruttuari.

La legge, nota con il numero "865", ha così consentito ai grossi proprietari tra i quali spicca don Peppino Garda di creare, al momento giusto, rapporti con la Coldiretti o con terzi per privilegiare larghe fasce di familiari, parenti, amici o fedeli subalterni.

Garda, tanto per fare un esempio, ha ceduto "al momento giusto" la sua terra alla moglie Vita Ganci e ai figli Baldassare, Anna, Maria, Ursula e Gaetana, conservandone l'usufrutto. Aveva poi creato rapporti di mezzadria o di affittuariato con i generi Pietro Madonna e Baldassare Miceli. E, grazie a questi rapporti, una prima estensione di 33 ettari gli è stata pagata un miliardo 68 milioni e 960 mila lire: circa 33 milioni e 600 mila lire ad ettaro.

Un altro esempio: Michele Fundarò, coltivatore diretto, ha percepito un miliardo e 58 milioni per l'esproprio di 30 ettari. Un altro ancora: i coniugi Antonino Vaccaro e Rosa Perrillo, entrambi iscritti nell'elenco dei coltivatori diretti, hanno incassato 99 milioni e 209 mila lire per due ettari e 96 are. Ed inoltre: Giuseppe Serradifalco di Roccamena ha percepito 145 milioni per quattro ettari e 56 are.

Il progetto della diga Garcia, redatto nella sua stesura definitiva nel dicembre 1972, venne approvato il 18 settembre 1974, otto giorni dopo il sequestro di Franco Madonna, enologo, nipote di Giuseppe Garda. Agli osservatori e agli inquirenti è sembrato che la "mafia nuovo corso" abbia voluto colpire Garda sotto il profilo affettivo infierendo con crudeltà sui sentimenti di un vecchio baluardo della tradizionale mafia di Monreale.

Al vecchio patriarca, durante i sette mesi di prigionia del nipote, sono giunte offerte da ogni parte d'Italia per i suoi terreni di Garcia e Roccamena. Per rendersene conto basta dare un'occhiata al volume di circa 80 pagine in cui sono tradotte le intercettazioni telefoniche dei carabinieri durante il periodo del sequestro. Offerte giunte dall'Immobiliare Venezia, da possidenti del Lazio, di Bologna, Napoli, Monreale, Bisacquino e San Giuseppe Jato. Ma Giuseppe Garda tenne duro, non vendendo una sola striscia di terra e cedendo soltanto il cocuzzolo di una montagnola (terra gessosa e non trasformabile) che non rientrava nel piano espropriativo.

Con i banditi Garda raggiunse un accordo per pagare il riscatto in tre rate. Il denaro gli veniva ogni volta preparato dalla Cassa centrale di risparmio: 120 milioni pagati il 4 marzo 1975, poi 150 milioni e, infine, il 13 aprile 1973, 730 milioni per un totale di un miliardo di lire.

L'ultima rata, quella di 730 milioni, fu consegnata ai banditi da Pietro Madonna e da Baldassare Miceli, partiti in auto dalla loro abitazione di Monreale alle 22 del 13 aprile e rincasati alle 2,35 del giorno dopo.

I carabinieri accertarono che lunedì 14 aprile il gioielliere Mario Martello non aveva messo piede nella sua oreficeria. La sua auto fu però vista transitare verso le 15,20 da corso Calatafimi. La mattina di martedì (15 aprile) Franco Madonna fu rilasciato dai banditi. Martello tornò a casa alle 8,15 di martedì con le ruote della sua macchina infangate.

Fermato dai carabinieri, non seppe fornire spiegazioni per la sua assenza dalla sera del 13 aprile, alla mattina del 15. Fu arrestato il 18 aprile, imputato di concorso in sequestro, e condannato nel dicembre 1977 a 15 anni di reclusione. Non ha mai parlato e non sono stati identificati i suoi complici.

Prima della liberazione di Madonna, in contrada Gamberi di Roccamena era stato ucciso il sindacalista Salvatore Monreale. Non si è riusciti a dare un perché a questa "esecuzione", né il delitto può essere collegato con certezza al sequestro. Al contrario, la lunga catena di sangue che si sviluppa dopo il rilascio suggerisce una relazione con il "caso Madonia".

Di cinque omicidi abbiamo già parlato nella scorsa puntata. Ricordiamo rapidamente i nomi delle vittime: 27 gennaio 1975, Angelo Genovese e il suo dipendente Michele Ferrara a Giardinello; 17 dicembre 1975, Remo Corrao a Monreale; gennaio 1976, Aloisio Costa a Sancipirello; 11 aprile 1976, Enzo Giuseppe Caravà a Sancipirello.

Cinque omicidi tutti ad opera di "ignoti", come ignoti sono rimasti i complici di Mario Martello, l'unico condannato per il sequestro Madonna e contro il quale i Garda-Madonia, durante il dibattimento, non si sono costituiti parte civile.

Per avere una visione complessiva dell'attività della "nuova mafia" nella rottura dei vecchi equilibri realizzati dalla mafia tradizionale, oltre al sequestro Madonna, bisogna esaminare quelli del professor Nicola Campisi e dell'esattore Luigi Corleo.

La mattina del primo luglio 1975, verso le 10,20 il professor Campiri, docente di criminologia all'università di Palermo, era uscito dall'abitazione paterna di Sciacca, diretto nella cartiera di Menfi, amministrata dalla società ISCA, e di cui il padre era il maggiore azionista. La cartiera è sulla strada statale 115 a circa sette chilometri da Menfi.

Il padre a mezzogiorno, non vedendolo arrivare, telefonò a casa apprendendo così che il figlio era partito da un'ora e mezzo. Si ipotizzò subito il sequestro di persona a scopo di estorsione. La conferma si ebbe il giorno dopo, quando il camionista Gregorio Verderame di 29 anni di Sciacca, avendo letto la notizia della scomparsa di Campisi sul "Giornale di Sicilia", rivelò ai carabinieri di essere stato inconsapevole testimone del sequestro.

Raccontò che, verso le 10,30 di quella mattina, percorrendo in camion la "113" in direzione Sciacca – Menfi, in contrada Calì, nei pressi di Quisisana, aveva notato una Mini-minor chiara targata Palermo ferma sul ciglio della strada. Vicino all'utilitaria c'erano altre due macchine, una Fiat 124 color sabbia e una A-112 di colore celestino. Pensando che ci fosse stato un incidente stradale, si fermò per chiedere se qualcuno avesse bisogno di aiuto. Ma in quel momento la 124 e la A-112 ripartirono a gran velocità. Verderame ebbe l'impressione che una delle due auto avesse preso a bordo il ferito della Mini-minor.

La "124" fu poi trovata abbandonata a pochi chilometri da Menfi. Sui sedili c'erano dei batuffoli di cotone imbevuti di ???. Nessun dubbio quindi che il professor Campisi era stato sequestrato a scopo di estorsione. E pochi giorni dopo giunsero all'avvocato Remo Campisi le prime richieste anonime: i banditi volevano un miliardo.

Verderame, interrogato a lungo, in una foto segnaletica notò una certa somiglianza tra un pregiudicato e l'autista di una delle due macchine fuggite a tutta velocità quella mattina. Si trattava di un autotrasportatore residente a Modena, Antonino Pollina, 44 anni, denunciato nel luglio 1968 per omicidio e associazione a delinquere ma prosciolto, per insufficienza di prove, il 5 gennaio 1969 al termine dell'istruttoria.

Mentre erano in corso le indagini sul rapimento del professor Campisi, da Salemi giunse notizia di un altro sequestro, quello del big delle esattorie Luigi Corleo, 71 anni, abitante nel Palazzo Filaccia di via Matteotti a Salemi.

Era stato rapito verso le 13,55 del 17 luglio 1975, mentre si trovava in una sua villa di contrada Gargazzo, vicino a Salemi.

Si trattava di un sequestro clamoroso, conosciuto come era Corleo, suocero di Nino Salvo, titolare di una società che ha in appalto uffici esattoriali a Salemi, Marsala ed altre cittadine del trapanese.

Vecchio amico di Francesco Cambria, big delle esattorie di Palermo, Messina e Catania, Corleo era riuscito a determinare uno stretto collegamento tra Giuseppe Cambria, il figlio di "don Francesco", con suo genero Nino Salvo. Un duo che, facendo leva sull'esperienza di Francesco Cambria, oriundo di Floresta (Messina) e di Luigi Corleo ha dato vita a Palermo alla SATRIS, l'esattoria che introita i tributi dovuti dai cittadini al Comune.

La tradizione del gruppo Cambria – Corleo – Salvo nella gestione delle esattorie comunali è trentennale. Venne alla ribalta della cronaca soprattutto tra il 1958 e il 1961, quando Silvio Milazzo, deputato regionale della circoscrizione di Caltagirone e già assessore regionale all'Agricoltura e alle Foreste, lasciò clamorosamente la Democrazia cristiana determinando una grossa frattura all'interno del suo partito e fondando l'Unione separatista cattolici siciliani (USCS).

Presidente dell'USCS, protetto dall'esterno dal PCI, Milazzo per l'imponente numero di voti riportato nelle elezioni del 1957, divenne presidente della Regione formando una maggioranza eterogenea, battezzata col nome di "milazzismo".

In quel tormentato periodo della vita politica siciliana, il gruppo Cambria-Corleo, già economicamente potente, appoggiò incondizionatamente la DC e il segretario regionale del tempo, Giuseppe D'Angelo, per scalzare l'USCS e riportare i democristiani al governo.

Una lotta dura protrattasi per tre anni, durante i quali Milazzo riuscì a governare con l'appoggio esterno delle sinistre e con la partecipazione, nella giunta regionale da lui presieduta, di deputati missini e monarchici.

Fu appunto il gruppo Cambria – Corleo – Salvo, con quartier generale all'Hotel des Palmes di Palermo, a provocare l'esodo dall'USCS del barone catanese Benedetto Majorana e il crollo definitivo dell'USCS di Silvio Milazzo nei primi mesi del 1961.

Milazzo cadde indecorosamente e alla presidenza della Regione lo sostituì, per oltre un anno, Majorana della Nicchiara, presidente di una giunta provvisoria composta pure da democristiani.

Il gruppo degli esattori acquisì quindi notevoli benemerenze all'interno della DC, sostenuta economicamente nelle elezioni regionali del 1962 che segnarono il definitivo tracollo di Milazzo. Non è un caso se, proprio in quegli anni, il gruppo consolidò la sua posizione economica nell'isola ottenendo la gestione di moltissime esattorie comunali siciliane.

Quando fu sequestrato, Luigi Corleo aveva già passato la mano al genero Nino Salvo. E la stessa cosa aveva fatto Francesco Cambria con il figlio Giuseppe. L'esperienza dei due "giovani" d'altronde era ormai ventennale avendo partecipato alla solidificazione di un impero economico indubbiamente costruito col benestare della vecchia mafia del Trapanese e del Palermitano, quelle – per intenderci – rappresentate dai Rimi di Alcamo, dai Bua di Marsala, da Giuseppe Garda, ma anche dalle vecchie leve della Democrazia cristiana.

Come il sequestro di Franco Madonna aveva colpito la potenza economicamente di Giuseppe Garda e dei suoi "amici" per sconvolgere l'equilibrio realizzato nel Monrealese dalla mafia tradizionale, così il sequestro di Luigi Corleo è stato interpretato come un atto di ribellione della nuova mafia ad un impero economico basato su vecchi equilibri. Si voleva quindi sconvolgere la zona della Valle del Belice dove la mafia tradizionale e i vecchi imperi economici da essa sostenuti avevano il controllo sui lavori di ricostruzione dei paesi colpiti dal terremoto del gennaio 1968.

In questo ambiente, in fermento dal primo luglio del 1975, il giorno del sequestro di Luigi Corleo, era piombato il colonnello Giuseppe Russo che sarà poi ucciso dalla mafia il 20 agosto 1977 a Ficuzza. Russo conosceva benissimo l'ambiente. Era stato tenente della compagnia di Alcamo dal gennaio al dicembre 1956 e, con lo stesso grado, a Castelvetrano dal gennaio 1957 all'ottobre 1958. Poi, fino al marzo 1962, aveva coordinato le squadriglie formate per la vigilanza delle campagne per prevenire abigeati e catturare latitanti.

All'epoca dei sequestri Campisi e Corleo, Russo comandava il nucleo investigativo di Palermo, incarico affidatogli l'8 gennaio 1969 e mantenuto fino al 15 ottobre 1976, giorno in cui passò alla Legione dei carabinieri, prima di chiedere un periodo di convalescenza a causa di una sciatalgia bilaterale, otite e bronchite cronica, malattie acquisite in vent'anni di carriera durnate i quali gli furono riconosciuti 16 encomi solenni.

Russo mise in moto il suo apparato investigativo.

Il punto di partenza era la richiesta di un riscatto di 20 miliardi pervenuta al genero di Luigi Corleo, Nino Salvo. L'esattore chiese però la garanzia che il suocero fosse in vita e i banditi non si fecero più sentire. Da allora di Corleo non se ne è saputo più niente. E' morto nelle mani dei suoi carcerieri per malattia dopo pochi giorni dal rapimento? Ovvero, è morto di inedia abbandonato nella sua cella? Un mistero. Nessuno potrà mai dire se Corleo fu subito ucciso appena si misero in moto gli amici dei Salvo e gli uomini di polizia e carabinieri.

Una domanda però è d'obbligo: perché i Salvo chiesero garanzie per essere certi che Luigi Corleo non fosse morto?

L'esattore soffriva effettivamente di gravi disturbi renali ma nasce il sospetto che i suoi congiunti siano stato subito informati, chissà attraverso quali canali, della fine del big delle esattorie.