8 aprile 1979
L'escalation di don Peppino Garda
Luciano Liggio fu arrestato nel suo rifugio di Milano il 4 luglio 1974. Due mesi prima, il 23 maggio, era finito in carcere padre Agostino Coppola, uno degli imputati dei sequestri di Rossi di Montelera e Baroni a Milano, e di Luciano Cassina a Palermo. Non è un caso se, nell'abitazione di don Coppola, furono sequestrati cinque milioni del riscatto Baroni.
Le file della cosca furono decimate da numerosi arresti. E i controlli sulle persone bloccate consentirono di accertare che, oltre ad avere acquistato terreni ed altri beni immobili, Luciano Liggio era anche azionista della "S.p.A. Gulf Italia" di Roma, una società presieduta da Nicola Pignatelli D'Aragona Cortes di Napoli. Si appurò anche che parte del denaro proveniente dal riscatto dei sequestri veniva riciclato da uomini di fiducia nei casinò di Saint Vincent, Montecarlo e Sanremo.
L'arresto di Liggio, Coppola ed altri componenti l'"Anonima sequestri" scoraggiò chi non rimase impigliato nella rete tesa dalle forze di polizia.
Ma i programmi dell'"organizzazione" dovevano essere portati a termine. Molti palermitani del clan lombardo tornarono così in Sicilia pensando già ad altri sequestri, spesso suggeriti più da motivi di vendetta che non da effettive finalità di guadagno. Gli osservatori più attendibili pensano che in alcuni casi il fine sia stato di soddisfare le due esigenze insieme.
Si pensi al sequestro di Franco Madonia, il giovane enologo, nipote di don Peppino Garda, un anziano esponente del vecchio ceppo della mafia tradizionale di Monreale, quella capeggiata dai Minasola, dagli Sciortino, dai Viola, dai Miceli. Nato a Pioppo ed imparentato proprio con i Miceli (sua figlia si è sposata con Baldassare Miceli, erede del vecchio capomafia), don Peppino Garda, che ormai non aveva più interessi nell'edilizia, era proprietario di oltre 300 ettari di terreno in contrada Gammari di Roccamena, in maggior parte trasformata in vigneti.
Un sequestro anomalo quindi quello di Franco Madonia; realizzato quasi "in famiglia". Ma la vecchia mafia rinnegava il clan di Luciano Liggio, Gerlando Alberti e padre Agostino Coppola, personaggi-chiave dell'ala aggressiva e spregiudicata della cosiddetta "mafia nuovo corso".
Franco Madonia fu rapito quasi a mezzogiorno dell'8 settembre 1974. In macchina era diretto verso la fattoria del nonno Peppino Garda dove lavorava, come affittuario, anche suo padre, don Pietro. A mezzo chilometro da Gamberi, subito dopo Roccamena, un'auto strinse quella del giovane enologo. Costretto a fermarsi, Franco Madonia fu rapito dai banditi.
Fu liberato sette mesi dopo, alla vigilia di Pasqua. Riscatto: un miliardo.
Carabinieri e polizia sono convinti che quel sequestro, abbia provocato una lunga catena di delitti. Il primo anello di questa catena di sangue è un duplice omicidio: a Giardinello, alle porte del feudo Piano Zucco dei Coppola, cade sotto i colpi della lupara un "ex" della banda Giuliano, Angelo Genovese, fatto fuori insieme al suo dipendente Michele Ferrara di Prizzi mentre mungevano le pecore. Siamo al 27 gennaio 1975.
Passiamo al secondo anello della "catena", l'assassinio di un altro "ex" affiliato a Salvatore Giuliano, Remo Corrao. Viene ucciso a Monreale il 17 dicembre 1975. Era stato interrogato dai carabinieri sette mesi prima di morire, dopo la liberazione del nipote di don Peppino Garda. In casa di Corrao (via Randazzo 14 a Monreale) i militari sequestrarono fra l'altro una banconota di centomila lire proveniente dal riscatto del sequestro di Luigi Genchini di Milano.
Corrao sostenne che la banconota gli era stata data alla Banca del Popolo di Monreale nel corso di un'operazione finanziaria. Probabilmente era una bugia. E forse, fu poi ucciso per avere offerto la sua collaborazione a don Peppino Garda. Si tratterebbe dello stesso movente per cui i carabinieri spiegano l'omicidio di Angelo Genovese.
Altri due omicidi vengono collegati al sequestro di Franco Madonia, quello di Enzo Giuseppe Caravà, assassinato a Sancipirello l'11 aprile 1976 davanti ad una cantina sociale del paese, e quello di Aloisio Costa, anch'egli ucciso a Sancipirello il 22 gennaio 1977. Non sono pochi i dubbi che il primo dei due delitti sia necessariamente da collegare al sequestro Madonia. Per il secondo appare più verosimile, invece, una relazione con le vendette del "dopo-sequestro Corleo", al quale – secondo gli inquirenti – avrebbe partecipato anche un fratello di Caravà, Angelo, latitante da diversi anni. Per Costa, infine, si è anche fatta l'ipotesi dei contrasti tra cosche dedite alla sofisticazione del vino.
Nella sesta puntata dell'inchiesta torneremo sui delitti provocati dal sequestro Madonia. Per il momento è necessario invece soffermarsi sulla personalità di don Peppino Garda, perché la sua "carriera" è emblematica. Il sequestro di suo nipote è un "sequestro-monstre" proprio perché colpisce un uomo rappresentativo della tradizione che, smaliziato dagli eventi, negli anni sessanta firmò la sua neutralità durante la guerra tra i La Barbera e i Greco.
Garda rivela un certo tipo di mentalità tipica della mafia non denunciando, per esempio, la scomparsa del nipote.
Fu il colonnello Giuseppe Russo, ad una decina di giorni dal rapimento, ad avere la certezza che l'enologo fosse stato sequestro. Ma non trovò alcuna collaborazione nei familiari che, dal canto loro, cercarono ed ebbero contatti con i rapitori.
Furono chiesti in un primo tempo due miliardi di riscatto. Cominciò allora la politica del temporeggiamento e della lesina. Per sette mesi don Peppino Garda è stato così impegnato nelle trattative: 210 giorni caratterizzati da viaggi notturni del padre del giovane enologo, Pietro Madonia, e dell'altro genero di Garda, Baldassare Miceli. Gli itinerari venivano indicati per telefono o attraverso messaggi quasi sempre contenuti in pacchetti vuoti di "Marlboro".
I carabinieri controllavano tutto soprattutto con intercettazioni telefoniche e pedinamenti raggiungendo qualche successo: a volte nelle cabine telefoniche o in una roulotte di corso Calatafimi arrivavano tempestivamente e recapitavano i messaggi dei banditi prima dei familiari di Franco Madonia.
Una notte i carabinieri notarono una "127" rossa avvicinarsi alla roulotte di corso Calatafimi per depositare un messaggio segnalato a Garda con una telefonata intercettata poco prima da un sottufficiale dell'Arma.
Attraverso la targa dell'auto si risalì al proprietario, il gioielliere Mario Martello, con negozio a Palermo in via Aurispa, fratello del latitante Ugo, implicato nell'"Anonima sequestri" di Luciano Liggio.
Dai controlli effettuati dai carabinieri venne fuori un lungo elenco di personaggi sospetti che frequentavano la gioielleria. Eccolo: Biagio Prestigiacomo, Nicolò Salamone, i fratelli Bernardo e Stefano Bommarito, Salvatore Brusca, tutti di San Giuseppe Jato. Poi: Benedetto e Francesco Valenza di Borgetto, Andrea Impastato ed Emanuele Finazzo di Cinisi, Francesco Pastoia, boss di Belmonte Mezzagno, e Antonio Nocera, Luigi Savoca, Francesco Paolo Morello e Stefano Brancato, tutti di Palermo. Si pensò ad una loro partecipazione al sequestro Madonia anche perché facevano una serie di misteriose telefonate da un bar vicino alla gioielleria.
Per trovare la causale del sequestro si è scavato abbastanza nel passato di don Peppino Garda, ex-costruttore edile e proprietario di immense distese di vigneti tra Roccamena e Garcia.
Tra il 1954 e il 1960, venduta a malincuore la casa paterna di Pioppo (tra Monreale e San Giuseppe Jato) dove nacque anche il suo unico figlio maschio Baldassare, "don Peppino" tentò come molti altri la grande avventura edilizia in città.
Era l'epoca in cui, mancando un piano regolatore, si cambiava il volto di Palermo smantellando i fertili giardini della Conca d'Oro per costruire strade dove i palazzi ormai si susseguono uno accanto all'altro, via Sciuti, via Lazio, viale Leonardo da Vinci, via Empedocle Restivo, viale Campania e così via.
Giuseppe Garda fondò la società "Conca d'Oro" con il costruttore Giuseppe Quartuccio e comprò, con l'appoggio della Curia arcivescovile, vaste aree in quella che sarebbe diventata la città-nuova. In società con Garda e Quartuccio, entrò anche Francesco Zummo di Monreale.
I tre il 28 agosto 1963 vendono alla società capeggiata dal capomafia di San Giuseppe Jato, Nicolò Salamone, e comprendente Alberto Beltrame e Giovanni Simonetti anch'essi di San Giuseppe Jato, 2.104 metri quadrati di area edificabile nella zona di Malaspina per 35 milioni. Un affare per la "Conca d'Oro" che aveva acquistato i terreni per un paio di milioni ed un affare per Salomone e soci.
Mentre le "Giuliette al tritolo" segnavano la guerra tra le cosche che operavano in città e nelle borgate, vecchi mafiosi dello stampo di Garda, Salamone, Vassallo, Moncada consolidavano i loro vincoli di amicizia e costruivano le basi della loro immensa fortuna economica.
Garda in questo fu aiutato dalla Chiesa. Don Peppino era riuscito ad accattivarsi le simpatie e la protezione dell'arcivescovo di Monreale donando alla mensa arcivescovile, con atto del 22 maggio 1969 stipulato dal notaio Antonino Leto, 2.090 metri quadrati di terreno dell'ex-feudo Riela, da usare a scopo di culto e da destinare alla costruzione di attrezzature scolastiche. Un atto di riconoscenza per tre anni di "assistenza" fornita dalla chiesa di Monreale alla società "Conca d'Oro" fondata da Garda il 2 marzo 1966 con atto stipulato dal notaio Giuseppe Marsala.
Quartuccio e Zummo non furono i soli soci di don Garda. L'elenco si ampliò abbastanza. Eccolo: Antonino Terranova, Salvatore Moncada, Giacomo Bellomare, Giuseppe Sanseverino, Giuseppe Gorgone di Torretta, Giovanni Simonetti e Nicolò Salamone di San Giuseppe Jato, Alberto Beltrame di Perugia, Giovanni Di Giovanni e il figlio Francesco, Michele Caronia e Gaetano Maniscalco, tutti di Palermo.
Quasi analfabeta, ma eccezionalmente pratico e dotato di formidabile intuito, don Peppino Garda lasciò Palermo per tornarsene a Monreale tra la fine del '68 e l'inizio del '69, cioè quando con la sentenza di Catanzaro, quasi tutti i "114" mafiosi dei gruppi La Barbera e Greco uscirono dalle prigioni. Don Garda aveva previsto (e gli avvenimenti successivi gli hanno dato ragione) che gli "affamati" di Catanzaro avrebbero cercato di recuperare le posizioni perdute durante la carcerazione.
Così "don Peppino" sciolse la "Conca d'Oro" vendendo buona parte degli appartamenti ceh si era tenuto per sé e comprando contemporaneamente quattrocento ettari di terreno incolto nella vallata compresa tra Roccamena e Garcia: un acquisto del valore di 150 milioni che lasciò perplessi gli osservatori, anche perché si tratta di una zona sulla quale allora aleggiava il rischio dell'espropriazione per la costruzione di una gigantesca diga.
Giuseppe Garda non solo acquistò quei 400 ettari, ma fece comprare altri terreni ai suoi più stretti collaboratori. Quasi mille ettari finirono nelle mani di 240 proprietari tra i quali troviamo nomi che vale la pena di ricordare: i Giocondo di Camporeale, Antonino Salvo, Alberto e Luigi Salvo, tutti di Salemi e legati a Luigi Corleo, l'anziano Vito Sacco di Camporeale, parente del più famoso Vanni Sacco, Salvatore Mancuso di Alcamo, già amico di don Vincenzo Rimi e del figlio Filippo, Carmelo Pennino di Corleone, Michele Fundarò di Alcamo, Giuseppina Lo Castro di Salemi, parente dei Salvo e di Corleo, Antonino Terranova, ex socio della "Conca d'Oro", Antonino Vaccaro di Bisacquino, Giuseppe Serradifalco di Roccamena, Michele Sacco di Camporeale, Giuseppe Mancuos di Alcamo, Francesco Candela di Alcamo, Giuseppe Misuraca di Camporeale, Vincenzo Accurso di Camporeale, Salvatore e Francesco Sacco di Camporeale, Vincenzo Ferrara di Alcamo, Giuseppe Tramonti di Roccamena, Antonina Palermo con i mezzadri Giorgio Rausi e Giuseppe Ponzio di Salaparuta, Gaspare Teresi, Giuseppe e Vincenzo Cangelosi di Borgetto, Giuseppe Tritico di Poggioreale, Gaspare Tramonte di Poggioreale, Maria Adragna e Giacomo Trapani di Salemi.
Questi i più grossi tra i proprietari.
Nonostante le voci sulla imminente espropriazione, dall'acquisto della terra incolta alla trasformazione in lussureggianti vigneti il passo fu breve. Non capirono i piccoli proprietari i veri obiettivi della grossa operazione, non capirono né i braccianti né i salariati della terra. I poveri gridarono al miracolo per l'improvvisa trasformazione. E la Regione non lesinò contributi.
I braccianti intuirono i veri obiettivi di questa "corsa alla terra" soltanto alla fine del 1974, quando prese corpo il progetto per l'espropriazione delle terre che avrebbero dovuto fare da letto alla superdiga "Garcia": progetto definitivamente approvato nel 1975 con una previsione di spesa di 17 miliardi da elargire ai proprietari per l'esproprio di terre che, quattro o cinque anni prima, a loro erano costate, complessivamente, meno di due miliardi.
Un vero e proprio "affare" determinato non solo dalla "intuizione" di don Peppino Garda, ma soprattutto dalle complicità che i più grossi acquirenti hanno trovato ad altissimi livelli. Il progetto di espropriazione, non a caso, sembra essere stato approvato su misura.