6 maggio 1979
Dietro Mandalà otto nomi, otto delitti
La notizia del sequestro di Graziella Mandalà viene pubblicata dal Giornale di Sicilia la mattina del 21 luglio 1976. Un sequestro che fa sensazione. Atipico: mai prima di allora la mafia aveva rapito in Sicilia, a scopo di estorsione, una donna. E per di più si tratta della moglie dell'ex costruttore di Monreale Giuseppe Quartuccio, ex socio di don Peppino Garda, il possidente al quale rapirono il nipote Franco Madonia.
Questi i fatti: è da poco trascorsa la mezzanotte del 20 luglio. Cinque banditi armati di mitra e di pistola bussano al villino di via San Martino delle Scale, residenza estiva della famiglia Quartuccio. L'ex costruttore sta per mettersi a letto, apre la porta e si ritrova di fronte un giovane che gli dice: "L'Opel di suo cognato si è scontrata con un'altra macchina. Corra all'ospedale".
Quartuccio si precipita verso la camera da letto per informare la moglie sofferente di cuore, e i cinque malviventi piombano dentro. Con il calcio di un mitra colpiscono al capo Quartuccio, lo legano mani e piedi e gli tappano la bocca con una striscia di carta adesiva. Mentre un bandito tiene a bada l'ex costruttore, gli altri prendono di peso la Mandalà e la portano fuori per strada dove c'è un'auto con un complice alla guida. Quindi la fuga con la "124" rossa, una scena alla quale assiste un villeggiante di San Martino che abita vicino.
Il clamoroso sequestro viene indagato dalla polizia e dai carabinieri nello scenario di cronaca nera, che in quel periodo sconvolge il Palermitano: fatti allora ancora oscuri.
In particolare, i carabinieri collegano il rapimento della Mandalà con il sequestro dell'enologo Franco Madonna, rapito a Roccamena l'8 settembre 1974, per i rapporti avuti in passato tra Garda e Quartuccio, presidente e amministratore rispettivamente della disciolta società edilizia "Conca d'Oro".
Insomma, un altro colpo della "nuova mafia" che tenta di far soldi e, contemporaneamente, di umiliare esponenti rappresentativi della vecchia guardia.
Non mancano le tesi alternative. Fra le altre, quella secondo cui il sequestro colpisce direttamente Quartuccio, ritenuto – non si sa ancora se a torto o a ragione – il cassiere dell'"Anonima sequestri" e, come tale, responsabile di qualche torto. E' una tesi avallata dalla circostanza che i fratelli della seconda moglie di Quartuccio, tra i quali Pietro Mandalà, sono in odore di mafia, anche se ufficialmente impegnati nella gestione di una avviata pizzeria in piazza Duomo a Monreale.
Gli uomini che seguono le indagini sin dalle prime battute (fra gli altri, il questore Domenico Migliorini, il capo della squadra mobile Bruno Contrada e il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo) pensano subito ad un sequestro per vendetta senza, però, riuscire a chiarire di che tipo di vendetta si tratti.
Giuseppe Quartuccio riceve la prima telefonata dei banditi tre giorni dopo il rapimento alle 13: "Quartuccio, prepara un miliardo e mezzo se vuoi viva tua moglie", gli dice una voce con inflessione dialettale interrompendo subito la comunicazione.
Da quel giorno i rapitori si fanno vivi con qualche telefonata all'avvocato Giuseppe Candido, amico di Quartuccio. Non si saprà mai chi ha segnalato loro questo nominativo. Quartuccio ritiene che sia stata la moglie: ma la Mandalà, dopo la liberazione, sosterrà di non essere stata lei.
L'ex costruttore riceve anch'egli un paio di telefonate a casa, ma, ogni volta, non gli lasciano il tempo di rispondere.
Mi dice in quei giorni Quartuccio: "Non riesco mai a dire una parola perché non me ne danno il tempo. Tramite l'avvocato Candido ho così fatto sapere ai banditi che tutte le mie proprietà possono valere 200 milioni".
Una somma che non basta ai rapitori. Altra telefonata: "Dunque, Quartuccio – dice la voce con tono sarcastico – lo dobbiamo fare questo concordato?".
Terza ed ultima telefonata all'ex costruttore, fatta fra il 26 ed il 27 luglio: "Quartuccio, la signora sta male, dovete sbrigarvi se ci tenete a volerla viva".
Ma, attraverso l'avvocato Candido, Quartuccio comunica ai banditi che può subito approntare soltanto 15 milioni. "Allora – è la risposta – Quartuccio non ci tiene ad avere sua moglie viva". E' l'ultimo contatto con i banditi.
Colpo di scena il 29 luglio alle 23,30. Un funzionario di banca ha appena parcheggiato la sua auto in piazza Don Bosco, sta per rientrare a casa quando una donna barcollando gli viene incontro. Pensa che si tratta di una ubriaca ma lei si presenta: "Sono Graziella Mandalà per favore mi aiuti". Pochi minuti dopo arriva un parente della signora e viene avvertito il marito a Monreale.
I banditi abbandonano la donna su una 128 blu, accostata ad un marciapiedi di piazza Don Bosco. Le dicono di non muoversi e, per precauzione, prima di lasciarla, le coprono gli occhi con dei cerotti.
A piazza Don Bosco arrivano immediatamente decine e decine di gazzelle e volanti con carabinieri e funzionari di polizia ai quali Quartuccio dichiara di non avere sborsato una lira per il rilascio. Inizia così il giallo del dopo-sequestro.
Poco dopo la liberazione della signora Mandalà un anonimo telefona al giornale "L'Ora": dice che alla circonvallazione, dietro il palazzo dell'Ente minerario siciliano, c'è un "pacco" con un cadavere. La polizia compie una perlustrazione nella zona ma del "pacco" non si trova traccia. Dall'interrogatorio della Mandalà frattanto saltano fuori vistose contraddizioni che tingono ancor più di giallo le fasi del rilascio della donna.
Sono trascorse dodici ore dal rilascio. Siamo in casa Quartuccio, in via Marsala a Monreale. E' piena di amici che si congratulano per la felice conclusione della vicenda. Dall'orologio del Duomo si sentono rimbombare dodici rintocchi. Quartuccio dà un'occhiata al suo orologio, lascia la moglie sofferente a letto ed esce.
Mezz'ora dopo alcune persone lo vedono dirigersi verso la piazza dove si trova l'oreficeria di Elio Ganci. L'ex costruttore passa davanti al negozio, si ferma col pretesto di guardare un amico che passa da lì. I carabinieri diranno poi che voleva farsi notare da Ganci. E ci riesce. Il gioielliere esce fuori e si avvicina a Quartuccio, si complimenta per la liberazione della moglie. Alcune persone assistono alla scena. Quartuccio e Ganci si abbracciano e si baciano. I carabinieri diranno che il marito della Mandalà si era voluto "godere" l'imbarazzo della "sua vittima", Ganci, che ritiene implicato nel sequestro della moglie.
Non esiste un pronunciamento della magistratura, ma certe coincidenze lasciano perplessi. Pochi minuti dopo che Quartuccio ha abbracciato e baciato Ganci, una 128 (del tutto identica a quella utilizzata dai rapitori della Mandalà per liberarla a piazza Don Bosco) procede lentamente per via Repubblica. Elio Ganci è soprappensiero davanti al suo negozio. Ad un tratto dalla macchina schizzano fuori due killer armati di calibro 38 e lupara. Una raffica di colpi e, per il gioielliere, è la fine. Senza riuscire a dare una risposta i carabinieri si chiederanno: "Quartuccio ha assistito all'esecuzione?".
"Esecuzione" avvenuta mentre il sostituto procuratore della Repubblica Domenico Signorino, sulla circonvallazione si trova davanti al cadavere di uno sconosciuto scoperto in seguito ad una segnalazione anonima, più precisa di quella giunta al giornale "L'Ora". Il "pacco" è appoggiato ad un montante di tufo davanti al cancelletto di via Collegio Romano, una piccola traversa della circonvallazione, quasi all'altezza di un grande magazzino, il Sigros.
Il giorno dopo, il 31 luglio, all'istituto di medicina legale, il cadavere viene riconosciuto da una donna di Borgo Nuovo per quello del marito, Francesco Renda. Il medico legale, Alfonso Verde, fa risalire la morte a circa 20 ore prima del ritrovamento e quindi a pochissime ore prima del rilascio di Graziella Mandalà.
Il corpo senza vita viene ritrovato legato mani e piedi dietro la schiena.
Renda, 41 anni, abitante in via Assoro 2 a Borgo Nuovo, sposato con Angela Rizzato, padre di due bambine, era una vecchia conoscenza di polizia e carabinieri. Il 30 gennaio 1976 fra l'altro era stato bloccato su una Mercedes nuova di zecca insieme a Salvatore Enea, 39 anni, anch'egli di Borgo Nuovo, e di Giovanni Orofino, fratello di Michele, imputato di omicidio. In quell'occasione in casa Orofino furono sequestrate delle armi.
I delitti Renda e Ganci vengono subito collegati da carabinieri e polizia, che non ne fanno un mistero, al sequestro Mandalà. Comincia, infatti, a farsi strada l'ipotesi di omicidi commissionati addirittura da Quartuccio e dal cognato, Pietro Mandalà, per vendicare l'affronto. In casa Quartuccio viene effettuata una perquisizione e i carabinieri sequestrano 15 milioni, in contanti, probabilmente il denaro che l'ex costruttore avrebbe voluto offrire ai banditi come acconto.
Mentre si tenta di far luce sui punti oscuri che trasformano in un vero e proprio giallo il rilascio della Mandalà, ecco altri due omicidi. La catena di sangue si allunga.
E' il dieci agosto 1976. Nicolò Malfattore e Vincenzo Schifando, 23 anni il primo, 22 il secondo, entrambi sorvegliati speciali, poco prima delle 17 sono in un circolo ricreativo nei pressi di piazza Scaffa. Qualcuno si avvicina e dice loro di essere attesi al bar vicino. Appena fuori, a due passi da piazza Scaffa, da una 128 rossa scendono due killer armati di calibro 38 e fucile a canne mozze. La "sentenza" viene eseguita con facilità: Malfattore muore subito, Schifano viene inutilmente trasportato all'ospedale dove arriva senza vita.
Gli inquirenti navigano nel buio. Per altri 23 giorni non accade nulla. Colpo di scena il 2 settembre: alle 5,15 un gruppo di killer sorprende Salvatore e Filippo Ganci, 56 anni il primo, 50 il secondo, fratelli del gioielliere Elio, assassinato 33 giorni prima a Monreale. L'agguato viene teso proprio davanti allo stand dei Ganci al mercato ortofrutticolo di Palermo mentre i due fratelli, insieme ad alcuni dipendenti, scaricano meloni da un camion.
Non è difficile abbatterli perché i killer giocano sulla sorpresa. Un altro loro fratello, Vincenzo, 52 anni, titolare dello stand, riesce a salvare la pelle perché al riparo, dentro lo stand.
Non si registrava un delitto all'"ortofrutta" da 18 anni: dal 1958, quando venne ucciso a raffiche di lupara Gaetano Galatolo, "zu Tanu Alati", il "re" della zona Acquasanta-Montalbo: da quel giorno prese il suo posto Michele Cavataio, uno dei quattro assassinati negli uffici Moncada di via Lazio il 10 dicembre 1969.
Anche il duplice omicidio dell'"ortofrutta" viene inquadrato nell'ambito delle vendette seguite al sequestro e al rilascio di Graziella Mandalà. Strenuo assertore di questa tesi è proprio il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.
Il contadino Calogero Mannino, conduttore di un fondo a "Piano dell'Occhio", tra Montelepre e Torretta, di proprietà di Lucrezia Prestigiacomo, residente in America, mentre ara il suo terreno coltivato ad uliveto si accorge che la pala del trattore rimane impigliata in un sacco. E' una scena macabra. Dentro una buca larga circa 60 centimetri e profonda 80 c'è un cadavere avvolto a metà dentro un sacco. Il corpo, con le braccia e le gambe legate dietro il tronco con una fettuccia di canapa, era stato infilato nel sacco dalla testa fino all'addome.
Il riconoscimento, all'istituto di medicina legale, è facilitato da due tatuaggi: una farfalla ed una sirena. E' proprio Stefano Diaconia, 42 anni, scomparso un paio di giorni prima. La conferma la dà la moglie, Maria Sarchina, abitante in via Re Federico.
La cronaca si era occupata di Diaconia il 23 aprile 1963 quando davanti alla sua pescheria di via Empedocle Restivo, un gruppo di kille sparò delle raffiche di mitra contro il boss Angelo La Barbera, in quel momento fermo sul marciapiedi a parlare con lui. La Barbera non fu colpito, invece Diaconia e due suoi dipendenti rimasero feriti. Un attentato che fece storia perché segnò la fine di La Barbera, costretto a fuggire prima a Roma e poi a Milano. Gli assassini continuarono a cercarlo e tentarono di ucciderlo proprio a Milano in viale Regina Giovanna. Ma La Barbera se la cavò con qualche ferita.
Giaconia, dal canto suo, dopo l'agguato di via Empedocle Restivo, finì all'Ucciardone dove rimase fino al famoso processo di Catanzaro, quello contro le cosche mafiose del Palermitano.
Il 22 settembre 1976, giorno della sua scomparsa, Stefano Giaconia, al soggiorno obbligato nel comune di Lanciano, si trova a Palermo essendo riuscito ad ottenere un permesso. Riusciva ad ottenerli spesso. Proprio il 22 scade la sua "vacanza" in famiglia. Di buon mattino esce da casa per andare alla stazione, poi nessuno ne ha notizia. Dopo quattro giorni il suo cadavere viene trovato in quel sacco sepolto dalla terra in una buca di "Piano dell'Occhio".
I carabinieri effettuano dei sondaggi nei pressi della "fossa" dove era stato seppellito Giaconia, trovano a qualche metro di distanza un altro cadavere in avanzato stato di decomposizione.
Per gli ufficiali dei carabinieri, alla medicina legale, non ci sono dubbi: si tratta del pregiudicato Salvatore Spaduzza, latitante da due anni; lo riconoscono perché ha un dente fratturato ed annerito. Ma, prima ancora di vedere il cadavere, quella stessa sera, i familiari di Spaduzza sostengono che non può trattarsi di lui. Il giorno dopo genitori, fratelli, parenti ed amici della vittima vanno tutti all'istituto di medicina legale del Policlinico. Pur traditi da una certa emozione, dicono tutti di non riconoscere Salvatore Spaduzza in quel cadavere.
I carabinieri pensano che soprattutto i genitori di Spaduzza abbiano così tentato di evitare ulteriori danni alla loro famiglia e agli altri fratelli della vitima.
Per i rapporti di amicizia tra Spaduzza, Francesco Renda (il primo morto della catena), Salvatore Enea e le due vittime di piazza Scaffa, Nicolò Malfattore e Vincenzo Schifando, i carabinieri collegano anche le due ultime vittime col sequestro della Mandalà.
Renda, i tre fratelli Ganci, Schifando, Malfattore, Spaduzza, Giaconia: otto nomi, otto delitti. Il giallo si infittisce. Le ipotesi di un collegamento al sequestro della moglie di Giuseppe Quartuccio si concretizzano. Ma l'inchiesta riserva delle sorprese.